L’ex ad di Eni Vittorio Mincato, ecco perché dipendiamo dal gas russo: “Abbiamo fatto una guerra miope ai rigassificatori”

“Siamo sempre stati costretti a importare dall’estero gran parte del nostro fabbisogno di carbone, petrolio e gas e non è la prima volta che una crisi internazionale ci pone in gravi difficoltà. Noi dovremmo investire in impianti di rigassificazione, i quali per la loro intrinseca natura, sono capaci di accogliere le navi criogeniche che trasportano il gas liquefatto, da qualunque luogo esse provengano, dal Qatar o dagli Stati Uniti” dice il top manager 

Roberta Paolini
Vittorio Mincato, ex ad di Eni visto da Jatosti
Vittorio Mincato, ex ad di Eni visto da Jatosti

«Se invece di fare la miope guerra ai rigassificatori, sostenuta quasi sempre da politicanti in cerca di voti, avessimo avuto il coraggio di investire nella loro costruzione, oggi del gas russo potremmo fare a meno. Invece non è così, ne abbiamo assoluto bisogno».

Vittorio Mincato è uno degli osservatori privilegiati di ciò che è stata e che potrebbe essere la strategia energetica del nostro paese. Cavaliere del lavoro, manager di lunghissimo corso e soprattutto ex ad di Eni, la più grande azienda italiana, nella quale è entrato ventenne con la qualifica di impiegato tirocinante, uscendone, dopo esserne stato alla guida dal 1998 al 2005, quasi cinquant’anni dopo.

Ingegner Mincato, la crisi innescata dalla guerra in Ucraina giunge a complicare un quadro già difficoltoso per gli effetti della pandemia, in particolare per l’aumento della bolletta energetica. Come siamo arrivati a questo punto e perché?

“Dobbiamo considerare che lo straordinario sviluppo economico realizzato dall’Italia e dall’Europa a partire da metà del secolo scorso e fino a oggi è stato possibile grazie alla grande disponibilità di energia quasi sempre a buon mercato, ma di cui il nostro Paese non ha mai avuto la disponibilità sufficiente a soddisfare il suo fabbisogno. Siamo sempre stati costretti a importare dall’estero gran parte del nostro fabbisogno di carbone, petrolio e gas e non è la prima volta che una crisi internazionale ci pone in gravi difficoltà: ormai sono pochi i sopravvissuti che ricordano le difficoltà del nostro Paese quando nel 1940 la Gran Bretagna ostacolò le importazioni in Italia dal porto olandese neutrale di Rotterdam del carbone tedesco senza il quale la nostra industria era destinata a fermarsi e il carbone poteva arrivare solo via terra con i treni attraverso il confine al Brennero, sottoponendo però a uno stress insostenibile (viste la quantità coinvolte) le capacità delle rete ferroviaria italiana. Molti invece ricordano che, al tempo della guerra del Kippur, nell’ottobre del 1973, i paesi arabi associati all’OPEC (l'organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) decisero di sostenere l'azione di Egitto e Siria tramite robusti aumenti del prezzo del barile ed embargo nei confronti dei paesi maggiormente filo-israeliani. Quelle misure adottate dall'OPEC fecero schizzare il prezzo del petrolio, che allora era la nostra principale fonte energetica, da 3-3,5 dollari a più di 10 dollari al barile e quell’aumento di più del 230% fu la causa della interruzione di crescita economica dei paesi occidentali, Italia compresa, costretti ad adottare una dura politica di risparmio energetico.

Oggi ci troviamo ad affrontare una crisi bellica più grave, perché l’aggressore minaccia il ricorso alle armi nucleari se l’Occidente andasse in aiuto dell’aggredito; ma in termini di sicurezza energetica la situazione non sembra molto diversa da quella di ottanta anni fa e di mezzo secolo fa e nessuno allora rimase sorpreso che la nostra economia dipendesse dalla Germania prima e dai paesi arabi poi, come adesso dipende dalla Russia, dalla Libia e dall’Algeria, paesi ai quali siamo collegati dai metanodotti posati nel secolo scorso e nei primi anni di questo”.

Abbiamo “scoperto” che il 43 per cento del gas che usiamo, sia nelle nostre case che nelle nostre aziende, arriva dalla Russia e che uno dei gasdotti principali attraversa l’Ucraina, che cosa succederà ora? E che problemi rischiamo di avere?

"È dagli anni Sessanta che l’Italia importa petrolio dall’Unione Sovietica, prima, e dalla Russia, poi, ed è dagli anni Settanta che importiamo il gas dalla Siberia. Senza quel gas l’Italia, ma anche la Germania, non avrebbe avuto lo sviluppo economico che ha avuto e non scopriamo adesso che, per giungere dalla Siberia in Italia, al Tarvisio, questo gas attraversa l’Ucraina, la Slovacchia e l’Austria, le prime due un tempo al di là della cortina di ferro e la terza nemmeno oggi membro della Nato. Il tratto austriaco fu costruito da una joint-venture fra la nostra Eni e l'austriaca OMV, entrambe consapevoli del rischio che comportava il progetto, ma, nonostante le ironie di cui esso fu oggetto al tempo in cui fu concepito, in cinquant’anni di esercizio il ministero del petrolio russo, prima, e la Gazprom, poi, non avevano mai mancato di consegnare un metro cubo di gas. Ora le cose sono cambiate ed è vano indagare se, interrompendo le forniture, i russi stanno infrangendo il contratto e sono tenuti a pagare penalità contrattuali: à la guerre comme à la guerre, dicono i francesi. L’importante, ora, è procedere rapidamente a una riorganizzazione strategica volta a trovare fonti alternative di approvvigionamento. Purtroppo, nonostante la politica di diversificazione sempre perseguita dall’Eni, che è il principale approvvigionatore italiano di gas, le altre fonti di importazione, quella algerina e quella libica, non sono in buona salute: per varie ragioni, i metanodotti che attraversano il Mediterraneo dall’Algeria e dalla Libia stanno trasportando meno gas di quanto potrebbero ed è giusto che si cerchi di riattivare flussi adeguati da quei due paesi, come stanno facendo il ministro degli affari esteri e l’Eni stessa. Per fortuna, la fiera ostilità regionale al TAP, il metanodotto che attraversa l’Adriatico dall’Albania e atterra in Puglia portando in Italia il gas dell’Azerbajan, ostilità sostenuta in sede nazionale dallo stesso partito di maggioranza relativa, ha avuto minor fortuna della opposizione che a suo tempo fu schierata contro il rigassificatore dell’Enel a Brindisi, e così oggi abbiamo un’insperata nuova fonte di importazione: 10 miliardi di metri cubi che potranno raddoppiare nei prossimi anni”.

Nell’immediato quali saranno i problemi?

“Avremo sicuramente gravi problemi se l’Occidente non troverà un punto di accordo con la Russia e, considerato il diverso grado di dipendenza dal gas russo dei singoli paesi europei, questi problemi richiederanno misure e sacrifici ragionevolmente più pesanti nei paesi che, come il nostro, dispongono di poche centrali a carbone e di nessuna centrale nucleare. E non saranno né le esangui riserve di gas dell’Adriatico, né le velleitarie proposte di calmierare il prezzo del gas a risolverli. A volte vien voglia di suggerire a certi nostri “esperti” di andarsi a rileggere il capitolo dei Promessi Sposi che racconta la carestia dovuta alla mancanza di materia prima a causa delle guerre in corso e alla tassazione elevata, e l’aumento vertiginoso del prezzo del pane, cui il cancelliere Ferrer crede di poter porre rimedio stabilendo il prezzo fisso cui il pane deve essere venduto. Ciò non esclude che lo Stato sia tenuto ad assumere misure di contenimento dei prezzi finali del gas per gli usi civili, anche attraverso l’ARERA, l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente”.

La transizione energetica è diventata una parola d’ordine per le aziende, esiste una reale possibilità di sostituire le fonti fossili di energia con quelle “pulite”, eolico, fotovoltaico, biomassa etc etc

“Attualmente il mondo si alimenta per l’85% dei suoi fabbisogni con fonti fossili di energia (carbone, petrolio, gas). Soltanto l’altro 15% è fornito da altre fonti e, in particolare, l’eolico e il solare contribuiscono con il 5%. Tenuto conto della generale ostilità alla installazione di impianti che generano energia di questo tipo, vuoi per il deturpamento paesaggistico che ne deriva, vuoi per l’occupazione delle estese superfici che essi richiedono, vuoi per il fenomeno Nimby (nessuno vuole nulla nei pressi della sua casa), mi sembra improbabile che, nei termini relativamente brevi che si è data l’Europa, queste fonti alternative di energia possano davvero modificare sostanzialmente il mix delle fonti energetiche. Ciò non significa che non ci si debba provare, purché si tenga conto che sempre del petrolio e del gas avremo bisogno per soddisfare i nostri bisogni energetici. Ma questa mia opinione non può essere sorretta dai numeri: è una sensazione che mi deriva dalla tradizionale lentezza di trasformazione dei cicli produttivi, specialmente quando sono imposti dall’alto e non dal mercato”.

L’attuale situazione economica e di tensione geopolitica ha riportato di attualità la necessità di investimenti nell’aumentare la nostra indipendenza energetica. Cosa possono fare le aziende nell’immediato per evitare di collassare sotto il peso del costo dell’energia.

“Come ho detto prima, l’Italia non ha mai avuto indipendenza energetica e mai ce l’avrà fino a quando la scienza non sarà capace di offrirci una evoluzione delle attuali tecnologie di produzione di energia da fonti diverse da quelle fossili, atte a produrre, in modo meno invasivo e in quantità ben più elevate, energie rinnovabili adeguate ai nostri bisogni. Non è un obbiettivo impossibile. Del resto, chi avrebbe immaginato, trent’anni fa, che la tecnologia informatica e delle telecomunicazioni avrebbe raggiunto lo sviluppo che vediamo e sperimentiamo oggi, rivoluzionando il nostro modus vivendi? In attesa che venga quel giorno, dobbiamo fare come se rifornirsi di gas attraverso i metanodotti, da qualunque parte essi provengano, equivalesse alla celebrazione di un matrimonio cattolico, sacramentalmente indissolubile: una volta posato il metanodotto, non hai più alcuna possibilità di svincolarti dall’impegno contrattuale e se il fornitore viene meno ai suoi impegni, puoi protestare quanto vuoi, ma il gas non ti arriva più. E come certe coppie, tante ormai, preferiscono il matrimonio civile che per sua natura è dissolubile, così noi dovremmo investire in impianti di rigassificazione, i quali per la loro intrinseca natura, sono capaci di accogliere le navi criogeniche che trasportano il gas liquefatto, da qualunque luogo esse provengano, dal Qatar o dagli Stati Uniti”.

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