[L’opinione] La cura per i prezzi alti: prezzi alti

La banca centrale americana e quella europea si trovano tra l’incudine e il martello: da una parte un’inflazione fuori controllo frutto del surriscaldamento generale dell’economia indotto dagli stimoli post-covid ed esacerbata, specialmente sul lato energetico, dalla guerra in Ucraina (e da 20 anni di assenza di politiche energetiche in Europa). Dall’altra un’economia già in forte rallentamento per una questione anche fisiologica di ciclo economico

Renato Viero
Percent sign speech bubbles above talking businessmen
Percent sign speech bubbles above talking businessmen

Nelle scuole di economia di tutto il mondo si insegna che prezzi alti e poi ancora più alti fungono da deterrente alla domanda che ad un certo punto inizia a diminuire fino al punto in cui i prezzi scendono. Se questo ragionamento appare lineare quando l’oggetto dei prezzi alti è un bene fungibile lo è meno quando si tratta di beni primari alla nostra esistenza, quali l’energia e le materie prime. Per inciso fanno parte delle materie prime anche le cosiddette commodities agricole, in altre parole ciò di cui ci alimentiamo.

Ho scritto 7 articoli per NordestEconomia, questo è l’ottavo. E il tema centrale di tutti è l’inflazione. L’inflazione è una cosa estremamente seria: è la prima causa di morte delle democrazie. Abbiamo iniziato a parlare di inflazione nell’ottobre del 2020, prima che tutti ne diventassero esperti e abbiamo criticato le azioni delle banche centrali nel corso del 2021.

Prima è stato negato che ci fosse inflazione, poi ci è stato detto che è transitoria, poi si è data la colpa ai colli di bottiglia.

Ora la banca centrale americana e quella europea si trovano tra l’incudine e il martello: da una parte un’inflazione fuori controllo frutto del surriscaldamento generale dell’economia indotto dagli stimoli post-covid ed esacerbata, specialmente sul lato energetico, dalla guerra in Ucraina (e da 20 anni di assenza di politiche energetiche in Europa). Dall’altra un’economia già in forte rallentamento per una questione anche fisiologica di ciclo economico.

La cura per l’inflazione per le banche centrali è un rialzo dei tassi e una politica economica restrittiva mentre in un’economia in forte rallentamento servirebbero tassi in ribasso e politica monetaria espansiva. A dicembre 2021, la FED ha iniziato a ridurre drasticamente l’offerta di moneta, ponendo fine al quantitative easing (l’acquisto di titoli di stato come strumento di iniezione di liquidità nel sistema) e da quando la manovra (denominata tapering) è iniziata, tre mesi fa, i mercati non hanno fatto che scendere.

Si sente parlare a volte di policy mistake da parte della FED, ossia un errore di politica monetaria, che significa una manovra espansiva quando ne servirebbe una restrittiva e viceversa. In questo caso, visto l’andamento economico dei mercati e dell’economia e l’accelerazione senza precedenti dell’inflazione appare evidente che il passaggio ad una politica monetaria restrittiva andava fatto nel 2021, prima che l’inflazione diventasse un problema e quando l’intero apparato economico mondiale era in forte accelerazione. Rialzare i tassi in un’economia che decelera significa provocare una frenata ancora più violenta di quanto già non lo sia.

Un altro termine pertinente è quello di sof- landing, che significa letteralmente atterraggio dolce, l’atterraggio sarebbe quello dell’aereo che rappresenta l’economia nel delicato passaggio da regime espansivo a quello restrittivo. Soft-landing perche’ se il landing (atterraggio) fosse hard l’aereo andrebbe in mille pezzi. Hard-landing significa recessione. Ora, nonostante i fiumi di inchiostro versati sulla guerra e le parole di politici e banchieri centrali che leggono nella guerra la causa dei prezzi alti, come prima lo faceva per i colli di bottiglia, ogni osservatore del sistema economico sa che la guerra non è che la punta dell’iceberg. E l’inflazione è la manifestazione di una politica troppo lasciva, troppo a lungo.

Tra l’incudine e il martello quindi, da una parte un’inflazione come non si vedeva da generazioni (l’ultima volta che si sono viste accelerazioni del genere è stato negli anni ’70) e dall’altra banche centrali che cercano di contenerla senza precipitare il sistema economico in recessione.

Ma analizzo oggi questo dilemma (come analizzai la probabilità di inflazione 18 mesi fa) e osservo quanto segue.

Ci sono fondamentalmente tre indicatori di recessione e tutti e tre al momento possono essere visualizzati da una sirena rossa intermittente.

  1. Shock energetico. Dal 1946 in poi, ossia nella storia economica moderna, ci sono state 12 recessioni. 8 di esse sono state anticipate da un rialzo drammatico dei prezzi dell’energia mentre altre tre da un rialzo più moderato ma comunque notevole. 11 recessioni su 12 quindi sono state anticipate da importanti rialzi del petrolio. L’ultima, quella del 2020, e’ stata preceduta dal rialzo del petrolio nel periodo 2016-2018 che è passato da 40$ a 80$. Il petrolio oggi è passato da 30-40$ a 120-130$, un vero e proprio shock energetico.
  2. Rialzi dei tassi a breve. Per una questione di serie storiche, i dati sono presenti dal 1954 in poi, consideriamo ora le ultime 10 recessioni. Quante di esse sono state precedute da un aumento dei tassi? Tutte e dieci. Nel caso odierno va notato che, nonostante la FED abbia ancora alzato i tassi, il tasso sull’obbligazionario governativo a 2 anni è già passato dallo 0.25% di settembre a 1.5%. La politica restrittiva, per ora senza rialzi effettivi ma frutto del tapering, si è già trasferita sui tassi a breve. A questo aggiungiamo poi che attualmente il mercato prevede 7 rialzi dei tassi per il 2022, non credo che ciò accadrà, perché la FED correggerà la rotta, ma se dovesse succedere potremmo assistere ad una delle recessioni più profonde dei tempi moderni (dal dopoguerra in poi).
  3. Inversione della curva. L’ultimo fattore con valore predittivo è rappresentato da un’inversione della curva dei tassi. Anche in questo caso, verificato dalla storia recente delle ultime recessioni. Un’inversione della curva (i tassi a breve che brevemente diventano più alti dei tassi a lungo) non sempre segnala una recessione ma anticipa sempre una correzione importante nei prezzi degli asset. Ad oggi lo spread (differenziale) tra il 2 anni e il 10 anni statunitense è passato da 1.6% a 0.25% e il mercato dei futures ad un anno già sconta un tasso a 2 anni più alto del 10 anni. Quest’ultimo fattore non è ancora verificato del tutto ma poco ci manca.

Ci sarà quindi una recessione economica?

La stessa FED di Atlanta prevede una crescita del PIL allo 0% per il primo trimestre del 2022 (si parla di recessione tecnicamente quando la crescita del PIL è negativa per almeno due trimestri consecutivi). Recessione o meno con una decelerazione della crescita dal 7% allo 0%-1% (negli U.S.) vedremo movimenti di magnitudo rilevante negli utili delle imprese e di conseguenza nei prezzi degli asset rischiosi (azioni e obbligazioni high yield). Cosa che il mercato ha già iniziato a scontare prima della guerra in Ucraina.

Il nostro posizionamento continua a essere risk-off (molto conservativo) con una predilezione per il dollaro, l’oro e le obbligazioni governative (ma attenzione ai periferici in Europa, tra cui l’Italia).

Renato Viero, CFA

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