L’Università e le lauree troppo mirate

In questa fase del nostro sviluppo industriale è sempre più evidente il ruolo strategico della formazione e quindi della nostra capacità – delle imprese, del Paese, della stessa Europa- di investire in persone.
Se si torna a ripensare cosa è successo negli ultimi trenta anni si vede chiaramente che il mondo nel suo insieme è cresciuto con grande impeto, specialmente da quando, caduta l’Unione Sovietica, i mercati si sono aperti e le imprese, in qualunque posto fossero insediate, potevano far parte di catene del valore globali e quindi vendere le proprie competenze e specializzazioni in tutto il mondo.
In quegli anni, alla fine degli anni Novanta, anche le più piccole imprese delle nostre province, fra gli Appennini e le Alpi, sopra e sotto il Po, hanno sperimentato la possibilità di vendere i propri prodotti, fossero beni finali o intermedi, anche in Paesi lontani e per contro hanno iniziato a sentire la concorrenza di imprese dai nomi esotici.
In quel tempo l’Europa sulla spinta dell’euro cresceva più degli Stati Uniti, dove i vecchi colossi, dall’auto all’acciaio, produttori di beni tangibili e padroni delle passate rivoluzioni industriali, stavano vivendo un loro declino, sotto la spinta di oggetti misteriosi, che stavano avviando una nuova tecnologia basata sulla connessione globale e la produzione di beni intangibili come la stessa conoscenza. D’altra parte la Cina in rapida crescita come subfornitore dei giganti americani stava rapidamente imparando a fare da sé e quindi a divenire il vero concorrente dell’economia americana.
Tutto cambia con la crisi del 2008. La crisi della finanza dei subprime, i prestiti a pioggia dati dalle grandi banche americane anche a chi non aveva copertura, spinge Wall Street a buttare a mare i vecchi leader finanziari ed industriali, e si riversa interamente sulle nuove tigri informatiche, che rapidamente raggiungono livelli di capitalizzazione tali da permettersi investimenti in innovazione continua, anzi a fare della continua, velocissima, isterica innovazione il modello del loro sviluppo, sostenute dal governo a Stelle e strisce che capisce il valore militare e strategico dell’economia digitale.
Egualmente in Cina, Borsa e governo saltano immediatamente sul carro dei nuovi dei. Non in Europa, dove alla crisi si reagisce lentamente con politiche nazionali, locali, non all’altezza della sfida e solo in grande ritardo ci si sta accorgendo della dimensione degli investimenti da realizzare per rincorrere il “buffalo” americano e il drago cinese sulla via della nuova economia. Lo ha detto chiaramente Mario Draghi nel suo duro ma chiaro messaggio ai ministri delle finanze europei.
In questo contesto di così rapido cambiamento le imprese europee ma anche le italiane, in particolare le medie imprese italiane a forte specializzazione, stanno investendo in accademie aziendali, per poter disporre di personale costantemente formato ad affrontare le nuove sfide legate alla innovazione dei prodotti ma anche dell’organizzazione e del mercato.
Questo perché è sempre più evidente il carattere strategico delle proprie competenze, delle proprie risorse umane, delle proprie persone. Quanto più la fabbrica si robotizza e l’impresa fonda la propria crescita sull’innovazione continua, quanto più la competitività dell’impresa risulta dalla capacità di unire alta qualità e specializzazione delle produzioni offerte, tanto più le persone, le loro conoscenze dei processi, del mercato, dei loro clienti diventano il vero patrimonio dell’impresa.
Questa sensibilità viene inoltre oggi esasperata dalla caduta demografica che fa sì che in molte parti del Paese, sopra e sotto il Po, vi sia sempre più evidente la mancanza di persone, tanto da divenire in molti casi il limite alla crescita dell’azienda. Le università hanno tentato di rispondere a questa tendenza frazionando i corsi e offrendo percorsi di laurea sempre più legati a singole esigenze, ma è un errore. È troppo rapido il cambiamento per corsi che comunque debbono essere lunghi. Le università debbono concentrarsi sui fondamentali ed insegnare ad imparare in maniera sistematica che il cambiamento non è un fatto eccezionale, ma continuo.
La via è dunque la creazione di attività sempre più congiunte fra scuole, università e imprese, come gli Its, di cui io stesso ho realizzato la riforma facendone una parte strutturata del sistema educativo nazionale. Nel contempo c’è sempre più bisogno di meccanismi di stretta relazione fra accademie aziendali, in rapida crescita, e strutture educative dei nostri territori, valorizzando la funzione di ricerca propria delle università. In altre parole si vince solo insieme, ponendo al centro le nostre persone e investendo nelle loro competenze. —
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