Nel contenzioso il Fisco batte il contribuente 4 a 3

Nel contenzioso tributario cittadini e imprese ottengono un giudizio a loro favore in poco più del 30% dei casi. I dati nell'analisi dell'Ufficio studi della Cgia di Mestre

MESTRE - Negli esiti riferiti ai contenziosi fiscali registrati in tutte le Commissioni tributarie provinciali del paese, nel 45 per cento dei casi definiti nel 2016 ha avuto ragione il fisco, nel 31,5 per cento, invece, ha vinto il contribuente.

Lo scarto aumenta quando il risultato è riferito al valore economico del giudizio: sempre nel 2016, gli importi delle sentenze a favore del fisco sono stati pari al 48,1 per cento, mentre la percentuale di vittoria ad appannaggio del contribuente si è fermata al 23,4. Anche in Commissione tributaria regionale si registrano più o meno gli stessi differenziali sempre a vantaggio degli uffici del fisco. A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA.

“Nonostante lo scarto a favore del fisco sia abbastanza netto – segnala il coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA Paolo Zabeo -  non va trascurato il risultato positivo ottenuto dai contribuenti quando citano in giudizio l’Amministrazione finanziaria. Se teniamo conto dei costi che bisogna sostenere per avviare il contenzioso, dell’abbattimento del numero di ricorsi avvenuto dopo l’introduzione dell’obbligo della mediazione fiscale prima di adire in primo grado e dell’effetto scoraggiamento esercitato dal venir meno degli sconti sulle sanzioni mano a mano che si procede nel contenzioso, vincere oltre il 30 per cento del numero di giudizi nelle Commissioni tributarie provinciali non è poca cosa”.

Si deve considerare che fare valere le proprie ragioni nei confronti del fisco, ricorrendo alla giustizia tributaria ha un costo, non solo in termini di tempo, ma anche di denaro; le cifre che si deve sobbarcare il contribuente variano di molto in relazione alla complessità e al valore della pratica e sono dell’ordine delle migliaia di euro.

Si consideri poi che il ricorso non evita il versamento, anche se parziale, di quanto richiesto dal fisco: ad esempio a fronte di un avviso di accertamento è prevista la riscossione di 1/3 delle imposte contestate, mentre prima di ricorrere in secondo grado (in caso di sentenza avversa al contribuente in primo grado) si deve versare 2/3 degli importi dovuti a titolo di imposta ed interessi (al netto di quanto già versato).

Se a ciò si aggiunge che il tempo medio della giustizia tributaria è di circa 2 anni e 2 mesi per ognuno dei due gradi del giudizio, si comprende come per importi “piccoli” al contribuente convenga pagare piuttosto che ricorrere.

L’analisi dei giudizi pendenti presso le Commissioni Tributarie evidenzia come a partire dal 2012, si registri un calo progressivo che ha portato la giacenza a scendere al di sotto delle 500 mila unità nel 2016 (469.048 liti pendenti). Si tratta di un risultato che dipende essenzialmente dalla riduzione dei ricorsi pervenuti, questo in seguito all’introduzione dell’istituto della “mediazione”.

Dal 2012 infatti, nel caso di controversie di importo sino a 20.000 euro, vi è una fase anteriore alla procedibilità del ricorso in primo grado.

In questa fase, l’Agenzia delle Entrate ovvero gli enti parti della controversia,  prendono in considerazione il reclamo presentato dal contribuente che può contenere anche una proposta di accordo (mediazione).

L’istituto della “mediazione” risulta particolarmente efficace nello scoraggiare il contenzioso in quanto si è rilevato che, oltre la metà dei reclami presentati non si è tramutato in contenzioso evitando un ulteriore processo tributario. Un risultato pregevole che ha indotto di recente il legislatore ad innalzare tale limite a 50.000 euro.

Tuttavia, poiché l’ente che ha emanato l’atto impositivo è lo stesso che lo analizza ed eventualmente accettando la proposta di mediazione del contribuente ridetermina la pretesa tributaria, si può avere la sensazione che si assista ad una forma di autotutela tardiva, dal momento che lo stesso ente, potrebbe annullare l’atto come previsto dalla legge.

Questo causa sovente un aggravio per il contribuente che invece di ottenere senza alcuna formalità la revisione totale o parziale dell’atto di accertamento, deve invece redigere e presentare un ricorso per ottenere ciò che gli sarebbe spettato di diritto e senza sanzioni (benché ridotte).

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