[Opinioni] La fuga dei cervelli è un bene, ma noi non li sappiamo attrarre

Basterebbe sostituire un semplice termine, rimpiazzando “fuga” con “mobilità”; e la prospettiva cambierebbe drasticamente. Lo sapeva bene la Serenissima, che i suoi giovani non solo non li tratteneva, ma anzi li spingeva ad andare all’estero

Viziati o sfigati. Gran brutta immagine abbiamo dei nostri ragazzi: appesi a una narrazione comunque perdente, che oscilla tra i bamboccioni tenuti nella bambagia domestica, e i poveracci costretti ad andarsene dall’Italia. L’attuale giro di pendolo sta sul versante della “fuga di cervelli”: periodica mistificazione statistica con cui si raggruppano sotto un’unica voce cumulativa e grossolana situazioni molto diverse tra loro.

Limitiamoci alla componente più elevata, che è poi quella su cui più si versano lacrime: i laureati. I nostri all’estero sono 7 su 100, due punti in meno rispetto alla media Ocse, cioè i Paesi più sviluppati; la Gran Bretagna è sei punti sopra, al 15.

Non è un problema di mancanza di lavoro in casa nostra. Le regioni che in termini assoluti più contribuiscono alle uscite sono la Lombardia e il Veneto; in termini relativi, il Friuli-Venezia Giulia e il Trentino-Alto Adige, mentre tra le province figurano nelle prime posizioni Bolzano, Vicenza e Trieste. Come si vede, le persone se ne vanno dalle aree più produttive del Paese, Nordest in testa.

È fisiologia, non patologia, specie per i giovani: tessiamo sperticati (e motivatissimi) elogi della “generazione Erasmus”, e poi ci stracciamo le vesti se una quota comunque modesta dei suoi componenti decide di scegliere l’estero non solo per studiare, ma pure per mettere a profitto quanto ha imparato.

In compenso, facciamo silenzio sul problema opposto, quello sì allarmante: esportiamo cervelli, non riusciamo a importarne.

L’Italia risulta tra i Paesi meno attrattivi in termini di personale qualificato: in una mortificante graduatoria Ocse di 32 nazioni, veniamo quart’ultimi, seguiti solo da Grecia, Messico e Turchia. E per stare all’esempio prima riportato con la Gran Bretagna, i numeri sono specularmente opposti: da noi i laureati in arrivo dall’estero sono 6 su 100, metà della media Ocse; gli inglesi sono al 16.

Su questo piano, l’Italia è un Piave alla rovescia: non passa lo straniero, proprio dove invece sarebbe salutare. Ma non diamo segno di preoccuparcene, preferendo spargere lacrime su chi ne va; e mantenendo peraltro una sconcertante indifferenza sui due milioni di ragazzi tra i 15 e i 24 anni che restano, ma senza né studiare né cercare un lavoro.

Gli esperti di sviluppo spiegano che uno dei fattori di eccellenza dei territori è la capacità di richiamare da fuori investimenti in termini di soldi ma ancor più di materia grigia. Lo sapeva bene la Serenissima, che i suoi giovani non solo non li tratteneva, ma anzi li spingeva ad andare all’estero; e che era un polo di attrazione mondiale per chi voleva venire a crescere da queste parti.

Come accadeva all’università di Padova, piena di stranieri sia tra i docenti che tra gli studenti; e dove, solo per fare un paio di significativi esempi, nel Cinquecento un Andreas van Wesel, o Andrea Vesalio, veniva da Bruxelles per laurearsi in medicina, e l’anno dopo era già in cattedra, rivoluzionando l’anatomia; e un Galileo Galilei, che Venezia ingaggiava a soli 28 anni dallo Stato allora estero della Toscana, e qui rivoluzionò la scienza.

Cervelli, che altro? Basterebbe sostituire un semplice termine, rimpiazzando “fuga” con “mobilità”; e la prospettiva cambierebbe drasticamente. D’altra parte, è ciò che accade nella realtà da millenni: altrimenti, l’umanità sarebbe ferma a Neanderthal. E ancor oggi, magari, più d’uno c’è rimasto.

Argomenti:opinioni

Riproduzione riservata © il Nord Est