Paolo Pandozy: "Non solo software, serve più cultura It"

Per il ceo di Engineering la priorità rimane la formazione: «Il Piano Calenda funziona, ma forte potenziale inespresso»

«La grande sfida davanti a noi è la digitalizzazione delle filiere, per facilitare la collaborazione tra aziende all’interno di distretti industriali sempre più ampi». Paolo Pandozy, ceo di Engineering Ingegneria e Informatica, traccia la rotta della transizione tecnologica che sta investendo l’imprenditoria italiana, forte dell’esperienza alla guida del gruppo multinazionale specializzato in software e servizi It con sede a Roma, ma nato a Padova e radicato nel Nordest. Una realtà che da due anni vede la maggioranza in mano ai fondi Nn Renaissance (nato dalla partnership nel private equity tra Neuberger Berman e Intesa Sanpaolo) e Apax VIII, con la struttura manageriale guidata dal fondatore e presidente Michele Cinaglia.
Siete tra le realtà It più grandi e internazionalizzate della Penisola, ma quando siete partiti nel 1980 l’informatica era un settore di nicchia. Perché lpartire proprio dal Nordest?
«Oggi si parla di strategie data driven e trasformazione digitale come nuove frontiere, ma a Padova già 40 anni fa c’erano aziende attive nella gestione dei dati e delle competenze sviluppate nel pubblico, che poi sono cresciute nel tempo. Mi riferisco a Cerved ed Engineering, due storie parallele, con un inizio comune, che attraverso un processo di privatizzazione hanno valorizzato l’esperienza maturata all’interno della Pubblica Amministrazione».
Anche se la PA italiana continua a registrare ritardi sul fronte dell’informatizzazione…
«In realtà queste storie raccontano come l’It pubblico possa essere trattato con una prospettiva diversa dalla solita: non più costo e zavorra, imbrigliato in realtà per loro natura non guidate da una cultura di innovazione e trasformazione, ma come valore e opportunità per privati disposti a investire su questi ‘pezzi’ di struttura che possono sprigionare competenze e innovazione».
Cosa rappresenta oggi Engineering per il Triveneto?
«Nell’area impieghiamo circa 850 persone, di cui 400 assunte solo nell’ultimo triennio. Merito del ruolo cruciale che stiamo giocando sul territorio, nel Paese e anche all’estero come partner in grado di coprire tutte le fasi della digitalizzazione di aziende pubbliche e private, dalla definizione delle strategie alla loro esecuzione tecnologica, in tutti i segmenti di mercato: banche e assicurazioni, PA e Sanità, telecomunicazioni e utilities, industria e trasporti».
Quali i numeri della società?
«Nel 2017 abbiamo superato la soglia di un miliardo di fatturato, siamo a quota 10.300 dipendenti, di cui il 90% in Italia, e continuiamo a sostenere la crescita investendo oltre 30 milioni all’anno in ricerca& sviluppo e in competenze».
A suo avviso cosa funziona e quali sono invece i punti critici nella transizione italiana verso il digitale?
«Indubbiamente funziona il piano nazionale Industria 4.0. Ha fatto comprendere quanto il digitale rappresenti un’opportunità per le aziende, per rinnovare i prodotti partendo dal modo in cui vengono progettati fino a come vengono realizzati, e poi promossi, distribuiti e venduti. Si tratta di una vera e propria rivoluzione. In un grande Paese manifatturiero come il nostro, con una forte presenza di Pmi spesso leader in settori di nicchia, la digitalizzazione della intera filiera facilita la collaborazione tra aziende complementari in distretti industriali sempre più allargati e rende più facile l’accesso ai mercati più lontani, mentre al contempo favorisce il fenomeno del reshoring, il rimpatrio delle produzioni delocalizzate».
Dunque l’automazione riduce l’incidenza del costo del lavoro e consente di riportare le fabbriche in Italia. Come mai, però, le ricerche internazionali ci posizionano indietro nei processi di transizione verso il digitale?
«Come tutte le rivoluzioni o le si cavalca o le si subisce e si finisce per esserne travolti. Vedo ancora un grande potenziale inespresso perché mancano le competenze. Non funziona il percorso di formazione per le figure sempre più specializzate e di alto livello che la digitalizzazione richiede».
Vuol dire che non è tanto una questione di software e hardware, ma di carenza di professionalità adeguate?
«Sì. La nostra azienda ha da tempo abbiamo aperto una scuola di It & management con cui eroghiamo oltre 15 mila giornate di formazione all’anno per i nostri interni e che mettiamo a disposizione anche per la formazione dei nostri clienti. Ci sono altre iniziative promosse da privati che vanno nella stessa direzione, ma manca un piano strutturale, mancano percorsi scolastici che accompagnino i giovani verso le nuove professionalità nel modo corretto. Se ne parla ma c’è ancora troppo da fare. Dovrebbe essere una priorità ma non lo è».
Quali i filoni del digitale?
«In primis l’intelligenza Artificiale, sintesi tra l’immensa mole di dati oggi facilmente disponibile e algoritmi sempre più sofisticati in grado di interpretarli rendendo l’interazione tra uomo e macchine sempre più ‘naturale’, con robot in grado di dialogare con gli uomini nella catena di montaggio, così come negli uffici di una banca o di una assicurazione. Senza parlare della capacità di questi algoritmi di trasformare i robot che tutti consideriamo parte dell’arredamento delle nostre case, realtà come la lavatrice e la lavapiatti, in componenti di una rete intelligente sempre disponibile».
La paura di perdere il controllo delle macchine le appare eccessiva?
«Dipende da cosa si intende. Il limite di queste applicazioni è che possono diventare invasive mettendo a rischio la privacy di tutti noi, che non solo utilizziamo le informazioni, ma soprattutto ne siamo inconsapevoli produttori, esposti al rischio di manipolazioni inconsapevoli. La nuova normativa Gdpr (regolamento europeo in tema di protezione dei dati personali, entrato in vigore a maggio, ndr) aiuterà in questo senso».
Cosa si attende dal nuovo Governo?
«Che sfrutti il digitale per facilitare la vita ai cittadini e alle imprese di questo Paese. Purtroppo la tecnologia non può nulla contro la burocrazia, che è dotata di potenti anticorpi che la proteggono da ogni forma di semplificazione. Si digitalizza un processo e in parallelo nascono due nuovi adempimenti che sembrano nati per neutralizzare i benefici di ciò che si è appena informatizzato. Lasciare le imprese, i cittadini e i funzionari pubblici onesti liberi di lavorare.. non chiederei altro».
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