Pietro Pavin, il ragazzo che rivendeva le rane ha fatto strada

Se gli chiedete come si fa, lui vi risponde che imprenditori non si nasce ma si diventa. Meglio peraltro se ci si prende avanti: come ha fatto lui, che ha cominciato da piccolo, ad appena 8 anni di età, organizzando veri e propri safari assieme all’amico Carlo nelle risaie dietro casa, armato di “spunciarola” e fanale a carburo, per catturare rane che poi rivendeva alla trattoria del paese, da Risaro.
Classe 1949, vicentino di Grumolo delle Abbadesse, Pietro Pavin oggi è a capo di un impero della moda che conta una trentina di negozi disseminati nell’alta Italia, con un fatturato da 40 milioni e 150 dipendenti. “Imprenditore dell’eleganza”, lo definisce il giornalista Antonio Di Lorenzo in un libro dedicato alla sua ricca avventura umana e professionale, significativamente intitolato “Esercizi di stile”. Ed è una definizione vissuta in prima persona fin dalla scelta della casa-madre, ubicata nel cuore antico di Vicenza: lo storico palazzo Thiene, che reca la più prestigiosa delle firme, quella di Andrea Palladio.
La sua è la più classica delle storie del profondo Nordest, costruita partendo da sotto zero. Nasce in una famiglia di campagna, come accadeva in quell’immediato secondo dopoguerra alla stragrande maggioranza della gente veneta: se non avesse scelto di nuotare controcorrente, sarebbe diventato un contadino come tanti. Erano tempi di pane e povertà, quelli raccontati in modo esemplare da Cesare Marchi nel suo “Quando eravamo povera gente”, la generazione dei cappotti rivoltati nel passaggio da un fratello all’altro. Un percorso segnato: terza media, poi un istituto professionale per periti meccanici, sempre in funzione della vita dei campi. Ma lui su un trattore proprio non ci si vede: a 14 anni ha il suo primo impatto con la città, Vicenza, sentendo montare dentro di sé la voglia di andarci. E per sempre.
Per riuscirci, bisogna consumare lo strappo con la famiglia. Lo fa a 17 anni, andando a fare il commesso in un negozio del Calzaturificio di Varese, scegliendo apposta un marchio consolidato per imparare al meglio il mestiere. Ma quello, ce l’ha nel sangue: i clienti non li aspetta in negozio, si mette ad acciuffarli in strada, sulla porta.
E ha già l’imprinting del fai-da-te: un giorno decide di fare incetta di scarpe in liquidazione, e se le porta a Sarmego dove la famiglia si è trasferita, rivendendole: in un paio di settimane guadagna quanto in due anni di lavoro, e con quel piccolo capitale si compra la classica 500, sentendosi un signore perché prima a Vicenza ci andava tutti i giorni in bicicletta, massimo in corriera quando il tempo era perfido.
Da lì in avanti la sua è una storia di irresistibile ascesa: vuole crescere professionalmente, e i suoi datori di lavoro ne colgono le potenzialità. Sempre col marchio del Calzaturificio di Varese, gira via via per Firenze, Milano, Bergamo, Varese; studia inglese alle serali; a 23 anni è già pronto per il salto di qualità. Intanto ha conosciuto Daniela, anche lei del mestiere, con cui si è sposato: a Vicenza aprono un loro negozio di scarpe per bambini, e hanno la genialata di abbinargli un medico ortopedico che fa da consulente.
È il 1979 quando decide che è il momento di mettersi in proprio: lascia la casa-madre, e da lì in avanti è un’escalation che lo porta a collaborare con nomi e marchi prestigiosi, da Benetton a Timberland, da Tod’s a Magli, aprendo una sequenza di punti-vendita, ciascuno dei quali rappresenta una vera e propria boutique.
La mission aziendale è elementare quanto strategica: il cliente ti sceglie perché si sente trattato meglio. Per questo, chi entra in uno dei negozi del gruppo ma si sente guidato da mani esperte in un vero e proprio percorso della moda e nella moda.
Oggi, Pietro è affiancato dall’intera famiglia, ma tiene saldamente il timone come fa da oltre quarant’annie. Continuando a far leva su un ingrediente semplice ma fondamentale, che sta nel dna di generazioni di imprenditori del Nordest: il lavoro è fatica. E senza quella, non vai da nessuna parte. —
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