Qualità e lavoro, l'impresa torna ai fondamentali
«Mia mamma si è fatta il fegato otto anni in Tunisia. Viveva là sei mesi l’anno: ci ha provato ma non c’è riuscita. Qui in Italia costa di più produrre, è vero; ma là ormai non è rimasto nulla. Abbiamo riportato la produzione qui e abbiamo la conferma che oggi la qualità paga. Ai tempi la scelta è stata rischiosa, era quasi un’intuizione. Ma ha funzionato».
È così che Matteo Lavezzo ha dato senso e forma al pantalone a 360 gradi, con una piccola fabbrica modello che è laboratorio, museo, sede eventi e sartoria su misura. Siamo a Zanè, in via Leopardi, tra foto di Frida Kahlo e Andy Warhol, giardini di sabbia zen da rastrellare in un grande open space con cucina, dove c’è pure una social area. “Made in” e “made out” La storia è quella di Project Officina creativa, inizia nel 1999 come produzione per conto terzi e un posizionamento nel “mercato di mezzo”.
Un mercato che nel 2007 porta l’azienda dritta in Tunisia. Fino al 2011 il 50% è made out e il resto made in. Poi la scelta di «puntare sulla qualità». Lavezzo rinforza la struttura Italia e cerca clienti appassionati di made in Italy. Chiude la Tunisia ma, di quel 50%, un 30% finisce in Romania. «Non potevamo eliminare totalmente il made out. In Romania gestiamo i prodotti basici e puntiamo sull’industrializzazione. In Italia teniamo il lavoro che richiede cura, quello dove il cliente vuole made in Italy al 100 per cento».
Tra fallimento e sindacati Sono diverse le ragioni alla base del processo decisionale che porta un’azienda a rivedere la propria geografia produttiva, in alcuni casi riportando in patria parte della produzione prima delocalizzata. In talune storie, le motivazioni sono quasi banali. A partire dal fallimento della strategia. Ovvero: produrre all’estero non ha dato tutti i vantaggi che si andavano cercando. In altri casi, sono i sindacati a trattare sul presidio italiano per salvare i posti di lavoro, come Electrolux insegna. Talvolta, i ritorni non durano nel tempo, come fece Lotto nei primi anni Duemila. O Belfe, azienda veneta che negli anni ’90 delocalizzò in Cina e Sud Est Asiatico, poi tornò in Italia nel 2004. Ma, nel 2012 scelse la Bulgaria. A geografia variabile C’è poi il caso della Aku, a Montebelluna. Paolo Bordin, che ne è il titolare, rifugge dalla parola reshoring.
«Noi abbiamo passato un momento in cui, per motivi finanziari, abbiamo dovuto ridurre la produzione in Italia senza mai chiuderla e poi abbiamo ripreso a produrre quello che facevamo prima», spiega. Aku fabbrica una piccola parte in Italia, il resto degli scarponi sono made in Romania. Quando tornò nel 2012, furono assunte sei persone ma l’estero è sempre rimasto imprescindibile. «Abbiamo iniziato fin dagli anni ’90 in Ungheria, poi per vicinanza linguistica abbiamo investito in Romania. Io non vendo quello che non è - dice - se riporto qui una piccolissima parte non faccio made in italy».
In Italia Aku occupa 60 persone, più 600 in Romania. Rivedere la strategia Alla casistica va di certo aggiunto quanto scrisse di suo pugno quasi due anni fa Mario Carraro in merito a un articolo sul reshoring dell’azienda di Campodarsego. «Sono stato promotore della non facile internazionalizzazione della Carraro – spiega l’ex presidente –. Non ho mai usato il termine delocalizzazione ed eccepisco, per quanto sono a conoscenza, che Carraro oggi stia tornando in Italia» scriveva nel 2014. «Va da sé – spiega – che alcune scelte produttive vadano riviste e riportate opportunamente in Europa, ma la Cina è un paese da cui non si può prescindere per l'evoluzione che il mercato sta vivendo e in cui penso Carraro voglia avere un ruolo». Il recupero della storia Sentimento diverso in Diadora, anche se pure in questo caso a rientrare è stata davvero una piccola parte della produzione. «La decisione che abbiamo preso - spiega Enrico Moretti Polegato, che gestisce il marchio dal 2010 - è legata ai valori di Diadora che è il marchio italiano dello sport e vanta 67 anni di storia. Noi volevamo rappresentare questo passato e il saper fare».
Da qui l’investimento in know how produttivo a Caerano San Marco. La “Manovia”, stabilimento storico dell’azienda, è stata inaugurata nel 2015. «L’obiettivo è portare il 7-10% della produzione in Italia: il top di gamma delle nostre linee», spiega Polegato. Occupati già otto giovani, ma nel 2016 dovrebbero essere introdotte quattro nuove leve. Un dettaglio non da poco: la produzione è artigianale, con i vecchi macchinari degli anni ’80. Linee in edizione limitata, vendute solo per un periodo di tempo o in shop esclusivi. Ecco cos’è Diadora made in Italy.
«Il progetto ci permette un controllo preciso della produzione - conclude Polegato - mettendo in diretta collaborazione la fabbrica con il centro stile e l’innovazione che arriva direttamente sul prodotto». Diadora oggi conta 200 dipendenti con un fatturato aggregato di 247 milioni nel 2014, in aumento del 20% nel 2015. Una costola sartoriale A giorni anche la padovana Gta entrerà nel mercato con un prodotto made in Italy su e-store. Nel 2014 Alberto Baban, già a capo di Venetwork, ha rilevato, con altri soci, Gta Moda, azienda padovana da oltre 50 anni produttrice di pantaloni classici.
Il progetto ha guardato subito al recupero del savoir faire tessile artigiano veneto. L’operazione di reshoring dalla Romania ha portato una nuova linea produttiva e occupazione ma ha fatto nascere, dentro Gta, una costola di azienda: Sartoria Padovana, oggi specializzata nel su misura. «Una scelta anti-ciclica – spiega Baban – perché i costi non sono ancora competitivi, in alcuni casi in Italia, rispetto l’Est Europa, siamo superiori del 50%. Ma l’idea di rappresentare un processo nuovo, con una linea lean (da fabbrica snella, ndr) per un progetto di qualità di prodotto e di servizio, è una sfida che volevamo portare a casa. Per questo – continua Baban – abbiamo investito con 20 assunzioni».
Oggi nella sede di Tencarola lavorano 18 addetti, ma presto si arriverà a 40. Gta continuerà comunque a produrre in Romania, dove sono occupate 300 persone. Swatch degli occhiali È notizia di pochi giorni fa l’investimento annunciato da Safilo di 63 milioni nella produzione italiana, per arrivare a un 60% di fatto in Italia entro il 2020. Il riavvicinamento di Safilo al Belpaese e in particolare al Nordest, dove insistono tre dei quattro stabilimenti nazionali del gruppo (Longarone, Santa Maria di Sala e Martignacco), passa però per la Slovenia. Perché qui l'azienda ha già avvicinato alcune produzioni che faceva in Cina.
Il passo fondamentale, per il reshoring, era legato alle trattative sindacali e alla necessità di modernizzare l'azienda. E così, ad accordo siglato, è stato annunciato il piano investimenti. La Spa sta investendo nella formazione e in nuove linee produttive aggiuntive, per portare in fabbrica pezzi di filiera e aprirsi altri mercati di massa. L’ad Luisa Delgado ha due modelli: Cucinelli e Swatch. Cucinelli per il posizionamento Atelier, uno dei segmenti a cui guarda il piano industriale 2020 per l'artigianato d'eccellenza. Swatch, invece, è il modello di massa e di innovazione a cui l'azienda tende: «Swatch non produrrebbe mai fuori dalla Svizzera i suoi orologi, eppure è differente. Questa la nostra sfida» evidenzia. La svolta tecnologica
Ed è arrivato il momento di investire in Italia anche per Snaidero: con un fatturato di 120 milioni nel 2015 e una previsione di 130 per il 2016, Edi Snaidero spiega che, chiuso il sito in Baviera e ceduta la linea franchising, l’azienda è pronta per nuovi «investimenti in tecnologia». Lo scopo: «Riportare tutta la produzione in Italia».
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