Reshoring: una questione di controllo
Reshoring indica il processo opposto alla delocalizzazione, parola che in inglese si scrive offshoring. Se quest’ultimo fenomeno denota lo spostamento all'estero di una o più fasi del ciclo produttivo di un’impresa, il reshoring implica dunque il rientro o il riavvicinamento delle produzioni alla base domestica. È un fenomeno di cui si è iniziato a parlare negli ultimi anni sull’onda di alcuni casi che hanno interessato gli Stati Uniti e poi l’Europa. Il tema è emerso anche nel nostro Paese grazie al lavoro di ricerca avviato presso l’Università dell'Aquila e ad alcune iniziative politiche regionali, fra cui anche in Veneto, di incentivo al rientro delle imprese che avevano aperto filiali all’estero. La consistenza del reshoring è al momento limitata.
L’Osservatorio dell’Università dell’Aquila documenta poco più di un centinaio di imprese italiane che dal 2007 ad oggi hanno ripensato radicalmente la propria strategia di delocalizzazione. A fronte di questi casi vale ricordare che nello stesso periodo il numero di filiali estere controllate da imprese italiane nelle diverse aree del mondo è passato da 20mila a 22mila unità, e gli occupati in tali filiali sono cresciuti di oltre 300mila, un balzo del 24% in un periodo non proprio favorevole all’occupazione interna. Inoltre, secondo l’Istat metà delle multinazionali italiane prevede nei prossimi anni un aumento degli investimenti all’estero.
Questo tuttavia non esclude che il reshoring sia un fenomeno degno di attenzione. Lo è nella misura in cui segnala una fase più matura nell’organizzazione internazionale delle imprese dopo la stagione eroica, se così possiamo dire, della delocalizzazione produttiva. Se la prima stagione è stata contraddistinta da una ricerca frenetica di molte imprese del made in Italy per ridurre il costo del lavoro, la fase attuale appare molto più ponderata. Per almeno tre motivi. Intanto perché il costo del lavoro nei Paesi di delocalizzazione – in primis Cina e Romania – è sensibilmente aumentato, mentre non c’è stato allo stesso tempo un corrispondente aumento di produttività. Se poi aggiungiamo lo sviluppo dell’automazione, che penalizza le fasi a maggiore intensità di manodopera, allora il differenziale competitivo sui costi di produzione si riduce ulteriormente, creando le condizioni per il rientro delle fasi più critiche della catena del valore. In secondo luogo sono cresciuti i costi di transazione internazionale, i cosiddetti service link. Non tanto i costi dei trasporti e della logistica, quanto altri fattori più complessi come il rischio di cambio, la debolezza dei sistemi finanziari delle economie emergenti, problemi di sicurezza e tutela della proprietà industriale, le complicazioni normative, le differenze culturali e l’instabilità politica, fino ai problemi ambientali.
Ma la ragione principale è la terza: proprio lo sviluppo delle economie emergenti ha alzato l’asticella della competizione, esercitando una crescente pressione sulle imprese del made in Italy per raggiungere un più alto posizionamento di mercato. Ci si è così accorti che la qualità dei prodotti esige un controllo diretto sulle operazioni manifatturiere. Tale controllo può essere esercitato anche attraverso l’interazione con fornitori esterni, i quali, tuttavia, non possono essere troppo lontani, pena la perdita di efficacia delle relazioni nella catena del valore. In altri termini, se negli anni ’90 superare i confini del distretto industriale è sembrato facile e conveniente, ci si è ora accorti che le complesse economie esterne che davano forma a un ecosistema competitivo non erano altrettanto facili da riprodurre altrove. È questo un aspetto che proprio il reshoring ha contribuito a rimettere in luce.
Per un’impresa manifatturiera che punta alla qualità i vantaggi della localizzazione in un distretto riguardano innanzitutto la reattività della catena di fornitura a fronte di un mercato variabile e sempre più esigente, che va verso la personalizzazione anche in conseguenza dello sviluppo delle tecnologie di comunicazione digitale. Per le imprese del made in Italy lo sviluppo dell’e-commerce non può puntare sulle economie di scala, quanto sul dialogo diretto con gli utilizzatori e le comunità di consumo esigente. Questo processo eleva la complessità dei processi produttivi, facendo venire meno la convenienza alla delocalizzazione. Ma la contiguità all’ecosistema distrettuale è importante soprattutto per i processi di innovazione, poiché è dall’interazione fra imprese appartenenti a diverse fasi della filiera, nonché da rapporti spesso informali con istituzioni educative e di ricerca radicate a un contesto produttivo, che nascono più facilmente soluzioni industriali di successo. Il dibattito sul reshoring ha in definitiva contribuito a far capire l'importanza dei “beni comuni industriali”, ovvero l’insieme di risorse economiche e culturali che stanno all’esterno delle imprese, ma che contribuiscono al loro vantaggio competitivo.
Tuttavia, così come era sbagliato pensare che la delocalizzazione fosse la soluzione definitiva ai problemi di competitività del made in Italy, bisogna oggi evitare di compiere l’errore opposto, immaginando che il ritorno in patria della manifattura sia di per sé garanzia per affrontare la nuova ondata della concorrenza internazionale. Essere presenti nelle aree più dinamiche e organizzare la produzione attraverso catene globali del valore resta la strategia più efficace. Perciò, se reshoring è l'opposto di offshoring, non significa che i due processi non possano convivere in una più matura strategia di apertura internazionale.
@corogian
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