Tondato Da Ruos: "Campioni di nicchia addio"
Ma che c’entrano i panini con “internet delle cose” e quarta rivoluzione industriale? C’entrano. E dalla tolda di comando di Autogrill il cannocchiale funziona meglio, perché oltre metà degli scontrini sono made in Usa. Ma dal quartier generale della multinazionale controllata dai Benetton, che sta a Rozzano alle porte di Milano, si vedono bene pure gli indizi di ripresa della macchina Italia. Perché dalle mani di Gianmario Tondato, che da una dozzina d’anni sta alla cassa di Autogrill in aeroporto o lungo l’autostrada, passano i denari di chi viaggia.
L’economia è in movimento o è ancora ferma allo stop?
«Da inizio anno a oggi vediamo una tendenza positiva. Aiscat conferma che sull'intera rete autostradale nei primi sei mesi del 2015 i veicoli sono cresciuti del 2,7%. Molto è stato generato dall’effetto Expo, che è stato un successo straordinario in termini di visitatori. Ha funzionato in maniera eccellente, anche se il contenuto ad alcuni è piaciuto molto e ad altri un po’ meno. Ma l'esecuzione è stata comunque magistrale. Milano ha dato una prova molto importante, si è comportata da capitale europea».
Torniamo al vostro osservatorio dell’economia italiana: le casse delle aree di servizio e dei bar in aeroporto.
«Non mi occupo di economia, solo dell’azienda. Sono quattro anni che non vediamo una crescita del traffico. Le famiglie hanno ricominciato a viaggiare nel weekend. La nostra storia ci dice che il traffico autostradale è un indicatore strettamente collegato al Prodotto interno lordo. Di sicuro il clima è più positivo».
Ci vede un effetto delle politiche economiche del governo Renzi?
«Non mi occupo di economia e non mi occupo di politica, però mi sembra che i fatti dicano che da parte del governo c’è un tentativo di fare delle cose. Alcune su cui si può discutere magari, ma fa cose. Il caso Expo è un esempio».
Expo che è stata anche una vetrina delle eccellenze italiane.
«Di eccellenze ne abbiamo tantissime. Parlo per esempio del settore agroalimentare, che traina l'export italiano. E dentro a questo ci sta ad esempio il comparto vini, che è il più importante. Il mio amico Sandro Boscaini, produttore eccellente di Amarone, sottolinea che sono cinque le aziende italiane sopra i 100 milioni di euro di ricavi e che vendono a oltre 5 euro di media la bottiglia. Tutti gli altri sono produttori piccoli e piccolissimi. Ma allora non per caso la Germania esporta nel settore agroalimentare più dell’Italia. I competitori a livello mondiale di Boscaini fatturano anche venti volte tanto. Non è che grande è meglio. Ma le aziende di eccellenza sono quasi tutte troppo piccole e frammentate, invece per crescere davvero a livello planetario occorre avere dimensione, finanza e una rete commerciale forte. Devi farti vedere in Cina e Usa. Altrimenti qualcuno ti copierà e ti sorpasserà. Alla qualità possono arrivare anche gli altri. Al limite ti comprano. Le eccellenze non bastano, bisogna puntare a essere unico, come hanno fatto i francesi».
Puntare a tanti campioni di nicchia è velleitario?
«Coltivare l’idea di essere primi di una nicchia spesso equivale alla condanna, a non esistere più nel medio periodo. Abbiamo troppi campioni di dimensione troppo piccola. L’Italia rischia la perifericità. La sfida è l’integrazione per beneficiare della crescita mondiale. La Cina, per esempio, ha una fortissima passione per fashion e food made in Italy. Una delle poche cose su cui possiamo costruire: la nostra immagine mondiale».
Che vale anche per una leva fondamentale della nostra economia, ossia il turismo. Che ha ripreso a tirare.
«Vero. Lo vediamo pure noi in aeroporti e autostrade. Ma siamo lenti. Mi è capitato in estate di andare sullo Jungfrau, che è invaso dagli asiatici. Da decenni la Svizzera fa comunicazione diretta a cinesi e asiatici, che difatti vanno sulle loro montagne e non sulle nostre. Loro hanno una strategia importante di comunicazione, con una pianificazione, che richiede risorse, tempo, stabilità e un progetto. Non basta avere le Dolomiti, bisogna saperle comunicare e far conoscere. Vedo pochi cinesi sulle nostre montagne, ci sarà un motivo. Se punti al mercato mondiale servono risorse, serve coesione. Non ci si può improvvisare. In più siamo indietro sulla cultura digitale».
Due gap pesanti. Dimensioni e arretratezza tecnologica.
«La differenza una volta la facevano gli accordi Wto. Oggi Bezos con Amazon fattura 80 miliardi di dollari, Apple ha una capitalizzazione enorme, Alibaba è stato la più importante quotazione della storia:sono loro a guidare i corsi e i nuovi paradigmi dell’economia mondiale».
Qui viene in campo la rivoluzione della manifattura 4.0 e di “internet delle cose”.
«Un altro grande sconquasso da interpretare verrà da sharing economy e digitalizzazione. Il mondo sta cambiando in modo non progressivo e con una velocità esponenziale. Proviamo a interrogarci. I libri di carta non scendono più rispetto agli ebook. La digitalizzazione inizia a ibridarsi con il mondo del business storico, fenomeno su cui nessuno ha ancora adeguate chiavi di lettura. Ma cambieranno i fondamentali del business per tutti. L’auto elettrica muterà di molto i comportamenti del nostro consumatore: per esempio richiederà soste più lunghe. Blablacar sta ricostruendo il traffico autostradale su presupposti nuovi. La sharing economy impatterà fortemente sui modelli di viaggio, probabilmente avremo più passeggeri con meno veicoli. Un trend di cui dovremo tenere conto. Non possiamo disinteressarci alla rivoluzione del digitale mobile, anche se non capiamo bene ancora dove va. Non riguarda me solo perché mi occupo di mobilità. Cambia la vita di tutti».
Un quadro denso di incognite e di insidie anche per la tenuta del quadro sociale, specie in Occidente.
«Vero, il quadro è preoccupante. Apple e Google hanno messo assieme una cassa spropositata e iniziano a fare cose in altri settori. Metterei la questione del futuro della manifattura italiana, che rimane molto importante, in questo grande cannocchiale. Il mondo si sta modificando in modo radicale, si sta smaterializzando. Le stampanti in 3D spostano le produzioni fuori dalla fabbrica di origine del singolo prodotto».
Uno scenario che chiama in causa in maniera tutta particolare il Nordest, che è fondato sulla cultura manifatturiera.
«Il Nordest è pieno di campioni, spesso troppo piccoli. Dinamici e innovativi. Ma troppo piccoli per cogliere tutte le opportunità e parare le insidie. La parola chiave sinora era flessibilità,oggi la sostituirei con agilità. Tocca capire che i contesti mutano con terribile velocità, anche per ragioni non legate al business ma al sorgere per esempio di guerre regionali o al posizionamento delle valute».
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