Trieste, quando la burocrazia diventa una trappola

La sentenza Anac che ha destituito D’Agostino rappresenta la crisi e la patologia della legge
Foto BRUNI Trieste 06.06.2020 Zeno D'Agostino incontra i portuali-abbracci e commozione
Foto BRUNI Trieste 06.06.2020 Zeno D'Agostino incontra i portuali-abbracci e commozione

TRIESTE La vicenda della destituzione del presidente dell’Autorità portuale di Trieste Zeno D’Agostino suscita amarezza e più di qualche riflessione. Essa rende evidente la crisi profonda dell’apparato amministrativo italiano e della legalità. Uno dei più grandi teorici della pubblica amministrazione, Max Weber, riteneva che la burocrazia fosse la «spina dorsale dell’organizzazione contemporanea» e uno degli architravi del governo della legge, caratteristico dello Stato moderno. Ma, al tempo stesso, metteva in guardia dal rischio di un processo irreversibile di burocratizzazione universale, che avrebbe finito per imprigionare gli uomini in una rete di regole minuziose sottomettendoli alla potenza anonima e irresponsabile degli apparati burocratici.

L’impressione è che, oggi, questo processo sia arrivato nel nostro Paese a un punto di non ritorno. La vicenda è emblematica perché un’autorità indipendente – l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) – ha argomentato la decadenza della figura apicale di un’amministrazione sulla base di una lettura estensiva di una norma che, introducendo una rilevante limitazione alla possibilità di attribuire un incarico pubblico, va invece interpretata in senso rigoroso. E lo ha fatto in violazione di un principio che ha origine europea e che pervade il nostro ordinamento, ossia il principio di proporzionalità, il quale impone all’amministrazione di adottare un provvedimento non eccedente quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato.

Nel caso di specie, si è creato un danno incalcolabile, minando la credibilità di un interlocutore istituzionale – cosa possono pensare gli investitori stranieri di un presidente destituito dall’Autorità “anticorruzione”? – sulla base di una lettura abnorme della legge e all’esito di una procedura sommaria. L’Anac si è difesa con una nota – che assomiglia a una excusatio non petita – nella quale sostiene di aver applicato una normativa «sulla quale dal 2015 ha più volte segnalato per vie ufficiali le criticità a governo e Parlamento, che tuttavia non hanno ritenuto di intervenire».

In realtà, in questo caso non si può imputare nulla al Parlamento perché l’Anac ha applicato una norma pensata per un caso diverso. La volontà legislativa è chiara ed espressa in una definizione assolutamente univoca: l’inconferibilità sussiste solo se un soggetto ha avuto poteri gestori diretti in una società privata regolata o finanziata dall’amministrazione pubblica e successivamente viene nominato al vertice di quest’ultima.

Nel caso di specie, non vi erano poteri gestori – visto che D’Agostino non aveva deleghe in Trieste Terminal Passeggeri – e, in più, era stato Commissario del Porto prima di diventare presidente di Ttp.

Data l’abnormità della vicenda, si è scatenata la dietrologia. A me pare che l’aspetto più preoccupante sia proprio che potrebbero non esserci disegni o complotti; essa potrebbe essere “semplicemente” il segno di una patologia più profonda e sistemica. Vi leggo una crisi strutturale della legge: ormai, il senso delle parole, anche laddove (come nel caso di specie) queste esprimano in modo chiaro la volontà del legislatore, risulta non avere alcuna valenza. L’auspicio allora è che il Tar del Lazio ribalti questa discutibile interpretazione.

Ma prima, verrebbe da dire che, se la politica vuole riaffermare le proprie prerogative, non può attendere che si pronunci il giudice amministrativo: il legislatore dovrebbe anzitutto assumersi la responsabilità di ribadire il senso di quella definizione così chiara con una norma di interpretazione autentica che impedisca altri casi kafkiani come quello triestino.

In un secondo momento, dovrebbe metter mano a un impianto normativo pensato nel 2012 con lo scopo (sempre meritorio) di prevenire la corruzione, ma che rischia di non colpire le condotte patologiche e finisce invece di certo – con una vera eterogenesi dei fini – per restringere in modo irragionevole la platea delle persone qualificate che debbono poter arricchire l’amministrazione pubblica.

Bisognerebbe ridurre ai casi davvero eccezionali il meccanismo automatico dell’inconferibilità, rimeditare i tempi entro i quali questa può essere denunciata (è inaccettabile una decadenza dopo quattro anni dalla nomina) e, infine, prevedere dei meccanismi di responsabilizzazione delle stesse agenzie chiamate a verificare il rispetto delle regole.

Oggi più di ieri, anche per superare le drammatiche incertezze esterne determinate dalla pandemia, gli operatori economici hanno bisogno di certezze da parte del decisore politico e delle autorità di controllo. E la certezza si garantisce con il rispetto della legalità e con la responsabilità di tutti coloro che vi sono vincolati. —

*ordinario

di Diritto processuale penale

Università di Genov
 

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