Vanni Codeluppi: «Nell’era della vetrinizzazione addio centri commerciali»

Il sociologo dei media sulle tendenze dello “spettacolo della merce”
Piercarlo Fiumanò

Vanni Codeluppi è fra i più importanti studiosi italiani sui fenomeni di consumo. È professore ordinario e insegna sociologia dei media presso l’Università Iulm di Milano. Tra le sue più recenti pubblicazioni Come la pandemia ci ha cambiato.

Codeluppi, che cos’è la vetrinizzazione, lo spettacolo della merce, e quando ha avuto origine?

«All’inizio del Settecento in Inghilterra i negozianti iniziano a esporre in vetrina i prodotti destinati a una nuova classe di contadini-consumatori che dalle campagne erano venuti a vivere in città per lavorare nelle fabbriche della prima industrializzazione. La vetrina nasce nelle città e riempie il mondo influenzando anche la cultura e le forme d’arte. Si impara per la prima volta a promuovere un bene che ha un suo valore. Nella seconda metà dell'Ottocento c'erano i “passage” parigini, realizzati in ferro e vetro, che illuminavano i cortili interni dei palazzi, trasformati in saloni illuminati per banche, albergi e ristoranti. Negli Stati Uniti i “department stores”, gli empori commerciali, fra il 1860 e il 1880, erano nati per la nascente classe borghese».

Che cosa è cambiato dai “passages” parigini a oggi?

«Oggi questo modello si realizza anche nello spazio digitale dove le persone si costruiscono un’identità, un profilo nei social per promuovere se stessi. I processi sono identici: è dimostrato che le persone cambiano in media la propria foto sui social diciotto volte l’anno. Anche le aziende, da Adidas a Nike fino alle griffe della moda, creano negozi e spazi virtuali che rispecchiano la propria identità. La marca poi si espande anche in ristoranti, parchi a tema come Lego e Disneyworld, e centri commerciali. I negozi crescono anche come dimensioni fino ad arrivare ai moderni centri commerciali, store e ipermercati.

Nella vetrinizzazione i marchi tradizionali resistono all’era digitale dominata da Google e Amazon?

Sì perchè queste aziende stanno applicando il modello della vetrinizzazione da decenni. Lo «swoosh», il baffo che simboleggia Nike, è sempre onnipresente. Una multinazionale del lusso come la francese Lvhm, nei suoi negozi Sephora, trasmette un mix di estetica e filosofia new age. La Timberland richiama i boschi e le fattorie del New England. In Apple sono maestri nel promuovere un marchio riconoscibile nel mondo».

Come è cambiato oggi il paesaggio urbanistico delle nostre città con l’estinzione dei piccoli negozi di quartiere?

«Le grandi marche, come Ikea e Disney, oggi stanno diventando soggetti che producono non solo business ma anche cultura e modelli di comportamento. Questi modelli si convertono in nuovi spazi urbani nelle città. Si cerca di proporre nuovi valori e stili vita. Mi viene in mente a Torino Green Pea, il primo centro commerciale verde e sostenibile al mondo».

Pensa che nell’era dell’e-commerce i grandi centri commerciali di periferia siano destinati a ridimensionarsi e tornare nelle città? Con quali conseguenze dopo che i cinema multiplex hanno preso il posto delle fabbriche dismesse?

«I grandi centri commerciali nelle periferie urbane delle nostre medie città sono diventati troppo grandi perchè rispondono alle necessità di un’Italia che non c’è più. Progettati per famiglie numerose, oggi sono meta di coppie spesso con un solo figlio. Una platea di consumatori che si riduce sempre di più per il calo demografico. Oggi viviamo nell’era del single o della coppia che spesso ordina i prodotti da casa con l’e-commerce. I grandi spazi costano molto e da qui nasce la spinta a spostarsi nei centri storici dove i consumatori vivono e spendono. Luoghi anche più piacevoli da vivere ma che rischiano di essere trasformati in ipermercati a cielo aperto. É sbagliato investire in operazioni di marketing urbano al solo scopo di attirare turisti. Esiste il pericolo di trasformare i nostri centri storici in tanti piccoli outlet con le fontane di marmo e finti ponti di Rialto».

Lei ha studiato a fondo il mondo consumi nell’era digitale. Come è cambiata insomma la “vetrinizzazione” nell’era dei social network e delle tecnologie?

«Il consumatore apprezza la comodità dell’acquisto da casa dei prodotti. Esiste una moltiplicazione dei modelli e canali di consumo e nessuno prevale sugli altri. La crescita dell’e-commerce da noi ha però ancora uno spazio limitato rispetto agli Stati Uniti dove le distanze da colmare fra i centri abitati possono essere enormi e l’e-commerce può essere più funzionale».

Quale modello culturale e commerciale propone oggi il mondo dei consumi nell’era della ipermodernità?

«C’è un cambiamento in atto, soprattutto nei giovani, nel modo di consumare i beni più sensibile e rispettoso dell’ambiente. Parlo di modalità in cui si condividono con gli altri beni e servizi, come l’auto, i viaggi e la casa. Ma anche l’offerta che nasce dal consumo di film e serie Tv con lo streaming. C’è una grande molteplicità di possibilità per il consumatore. A patto che si sappia scegliere».

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