Via della Seta, la nuova avanzata della Cina

La Cina rilancia sulla Via Della Seta: il terzo forum Belt and Road per la cooperazione internazionale si terrà a Pechino dal 17 al 18 ottobre, con la partecipazione di leader stranieri. L’economia cinese sta frenando mentre l’Europa rischia la recessione stretta fra inflazione, frenata tedesca e instabilità mondiale. «Pechino non vuole perdere il treno della crescita.
E per farlo deve rivolgersi ai mercati esteri. In questo senso il Forum sulla Via della Seta che si svolgerà in ottobre sarà interessante»: ha spiegato Renzo Isler, segretario generale della Camera di Commercio Italiana, in una recente conversazione con questo giornale. La Belt and Road Initiative, l'ambizioso progetto infrastrutturale lanciato nel 2013 dal presidente cinese Xi Jinping, ha generato finora oltre 2.000 miliardi di dollari di contratti in tutto il mondo.
Nell’analisi di Isler «la Cina è ancora molto solida patrimonialmente, con ampie riserve auree, investimenti importanti in valuta (uno dei principali finanziatori del debito pubblico americano) e, soprattutto, con tutte le leve in mano da poter aprire o chiudere a seconda delle necessita».
Attualmente, secondo la Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma (Ndrc), la Cina ha in essere oltre 200 accordi di cooperazione nel quadro della Nuova Via della Seta con 152 Paesi e 32 istituzioni internazionali in tutti i cinque continenti. Tra il 2013 e il 2022 il volume degli investimenti tra la Cina e i suoi partner ha raggiunto i 380 miliardi di dollari, 240 dei quali stanziati da Pechino.
Tuttavia, negli anni i progetti della Nuova Via della Seta hanno incontrato un crescente scetticismo all’estero, con timori legati ai debiti contratti dai Paesi partner nei confronti della Cina e alla strategia di Pechino di usare gli investimenti per aumentare la propria influenza politica a livello regionale e internazionale.
Intanto la partecipazione italiana alla Belt and Road è arrivata al capolinea: «La Via della Seta, se andiamo ad analizzarla, non ha portato sul fronte dell’export i risultati che ci attendevamo», ha spiegato al forum Ambrosetti il ministro degli Esteri Tajani. Nel 2022 le esportazioni italiane verso la Cina sono aumentate di poco, da 14,5 miliardi a 18,5 miliardi di euro, mentre quelle della Cina verso l’Italia sono balzate da 33,5 a 50,9 miliardi di euro nello stesso periodo.
Numeri che non soddisfano il governo, da tempo peraltro critico sull'adesione di Roma (nel 2019, ai tempi del primo esecutivo gialloverde di Conte) al mega progetto di infrastrutture globali promosso da Pechino. In ambito commerciale la Cina resta il primo partner commerciale dell'Italia in Asia, con 34 miliardi di euro di interscambio nel primo semestre 2023.
Nel 2019 Pechino aveva scelto il porto di Trieste come possibile porta d’ingresso verso l’Europa centrale. Il veicolo sarebbe stato il colosso di Stato China Communications Construction Company. Ma l’orizzonte in meno di un anno è completamente cambiato.
Al posto di quelli di Pechino, sono arrivati gli investimenti del colosso tedesco Hhla che ha poi ceduto al Dragone il 25% del suo terminal di Amburgo. Oggi il peso geopolitico e commerciale del porto di Trieste, considerata la presenza di Hhla nel Molo Settimo, si è da tempo spostato verso la Germania. Gli accordi siglati all’epoca del famoso memorandum non sembrano avere prodotto grandi risultati: basti ricordare il caso dell’export delle arance siciliane in Cina che è stato un flop. —
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