Zoppas: "Longarone è la culla dell'occhiale"

Giovanni Zoppas, amministratore delegato Marcolin, potenzia il sito e la manifattura made in Italy: "Cadorini, alpagoti o gente del Comelico: qui tutti hanno la cultura del prodotto"

«Cadorini, alpagoti, gente del Comelico sono sempre in competizione, ma il “brodo” è lo stesso. Questa è l’area che nell’occhialeria esprime al meglio la cultura del prodotto. E per il modo in cui Marcolin lavora, la cultura del prodotto è fondamentale. Così per i nostri occhiali di maggior costo, quelli di moda e lusso, abbiamo aperto proprio qui un nuovo sito produttivo».

Giovanni Zoppas, amministratore delegato della Marcolin di Longarone, spiega così la scelta di investire 5 milioni a Fortogna, a un passo dai due altri siti bellunesi dell’azienda, per aprire uno stabilimento che sette mesi dopo l’inaugurazione avvenuta a luglio 2015 occupa poco meno di 200 addetti, di cui 160 nella produzione. In questi mesi le assunzioni a Fortogna, sito dedicato alla fabbricazione di occhiali in acetato, sono state una sessantina. Insomma in Cina restano operativi i fornitori di occhiali fino ai 150 euro di prezzo finale – 11 milioni di pezzi all’anno – ma per quelli griffati, cioè 3,2 milioni di pezzi, vince il made in Italy: di quei 3,2 milioni di pezzi Marcolin ne realizza 1,5 milioni internamente, la metà appunto a Fortogna, l’altra metà a Longarone dove in produzione lavorano altri 200 dipendenti. Sono i numeri della crescita del gruppo, che nel 2015 ha raggiunto i 432 milioni di ricavi (più 21% a cambi correnti, più 11% a cambi costanti). Ancora non disponibili gli altri numeri del bilancio.


Dunque Marcolin ha scommesso sul territorio. Ma la cultura di prodotto su cui avete puntato, in concreto cos’è?
«È l’eredità di competenze tramandate. Qui un numero elevato di persone ha in famiglia i genitori, i nonni, gli zii, i cugini che a propria volta sono stati artigiani, piccoli imprenditori, medi imprenditori, dipendenti sempre nel campo dell’occhialeria. Per questo fin da piccoli tanti hanno visto come si producono gli occhiali. Quindi sanno di cosa si parla, persino – scherzando – meglio di me e di Massimo Stefanello, il nostro Corporate Manager Director».


Per preparare questo personale alle varie lavorazioni necessarie avete fatto molta formazione selezionando candidati giovani. Perché non assumere addetti già addestrati?
«È anche un modo per creare una sana fidelizzazione fra i nuovi assunti, siamo in un’area in cui le aziende dell’occhialeria si portano via l’un l’altra gli operai. È normale, solo la Silicon Valley a quanto ne so è in parte immune da questo fenomeno, là le aziende si sono accordate per evitare di sottrarsi a vicenda la manodopera».


Fra l’altro c’è per così dire una parte di Marcolin anche al suo esterno, parliamo cioè dei laboratori e dei fornitori che producono per voi. Quanti sono?
«Il numero non lo so, ma molti li abbiamo formati noi a contatto con i nostri reparti. Hanno dimensioni contenute che consentono lavorazioni artigianali che noi, con la nostra struttura industriale, non riusciamo a fare. Anche con questi fornitori cerchiamo di avere rapporti di lungo termine. Perché anche questo è un patrimonio da preservare».


Marcolin è controllata all’80% da Pai Partners, fondo di private equity, mentre i soci storici fra cui la famiglia Marcolin detengono una quota minoritaria. Come si concilia la proprietà, un fondo di private equity, con la strategia di radicamento territoriale, almeno per quanto attiene alla manifattura di qualità?
«Lavoro con i manager di Pai Partners da undici anni, il loro approccio non è l’intervento mordi e fuggi, ma consiste in strategie a medio-lungo termine, a cinque-sette anni, e soprattutto a 360 gradi: il portafoglio marchi, la distribuzione, la fabbrica, tutto si tiene. Abbiamo preso in mano Marcolin quando aveva un portafoglio marchi soprattutto italiano e l’abbiamo allargato e internazionalizzato, nel mentre la struttura distributiva è stata ingrandita fino a comprendere i mercati strategici per la nostra crescita, vale a dire Russia, Cina, Medio Oriente e Nord Europa. Il punto di svolta a livello di dimensione è arrivato nel 2013 con l’acquisizione della statunitense Viva. L’internalizzazione della produzione, ecco che ci ritorniamo, è un treno che non potevamo lasciar passare. La vocazione di Marcolin è la produzione di qualità, il made in Italy, ma questo aspetto è diventato parte organica di un ragionamento complessivo».


Ed è per questo che Marcolin, un’azienda che quasi interamente si affida alle licenze, produce a Longarone e Fortogna marchi top come Tom Ford, Montblanc, Ermenegildo Zegna, Balenciaga ed Emilio Pucci.
«Avremmo potuto fare a meno di investire qui, ma la nostra forza sarebbe stata molto inferiore. Non dimentichiamo d’altro canto che può colpire l’investimento per un nuovo sito produttivo a Longarone, ma assicuro che anche avviare una joint venture all’estero comporta un impegno finanziario cospicuo. Se ho un brand internazionale devo andare direttamente sui mercati di sbocco ma per farlo, anche con un socio, debbo controllare la distribuzione: ecco perché questo tipo di operazioni ha costi paragonabili all’apertura di uno stabilimento».


A livello generale, a che punto si trova l’occhialeria bellunese dopo la grande crisi degli anni scorsi?
«La grande crisi c’è stata quando abbiamo assistito a una migrazione delle produzioni in Cina: allora da 700-800 laboratori siamo passati a 150. Ora il problema non è produttivo, siamo in una situazione di mercati finali turbolenti: basti pensare a cosa succede in Russia, in Cina, nel Medio Oriente, in Centro e Sud America. È un contesto sfidante per tutti, ora fra l’altro si sono aggiunte anche le catene che formano gruppi d’acquisto capaci di tirare sul prezzo. Tutto ciò sta mettendo alla prova i protagonisti del settore, occorre cercare maggiori efficienze. Ecco perché quello dell’occhiale è diventato un mercato in cui possono stare solo aziende di medio-grande dimensione. Tanto più che l’assetto attuale dovrà essere ulteriormente razionalizzato».


A lungo termine del distretto bellunese dell’occhialeria che ne sarà?
«In senso economico il distretto non esiste: non ci sono funzioni come logistica o prodotto messe in comune. Ciascuna impresa fa per sé e non è mai accaduto qualcosa di diverso. Quindi quella di distretto può essere una definizione che ha una validità sociale o geografica, ma non economica. In questo senso, il destino dell’occhialeria bellunese sarà deciso dal destino del gigante indiscusso che vi opera, cioè la Luxottica».


Cosa intende?
«Chi controlla tutta la struttura dell’industry sarà decisivo come lo è ora. Perché ha in mano e ha mantenuto qui il grosso della produzione. È l’azienda leader, apripista, ha scoperto mercati dove poi sono andate tutte le altre aziende. Finché un colosso del genere sta sul territorio, tutto il settore ne beneficia. E attenzione, su questo argomento l’analisi è importante, perché ne conseguono certe strategie possibili e non altre. Se pensassimo che all’ombra del grande albero prima o poi si svilupperanno altri colossi, in virtù di una struttura asseritamente cooperativa del distretto, sbaglieremmo le strategie».
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