L’identità plurima della Liberazione al confine orientale: perché il 25 aprile fa così paura

Oggi appare un’occasione di polemica più che un momento di convivenza e rispetto delle diverse memorie. Serve uno sforzo per andare oltre

Federica Manzon
Una folla di ragazzini festanti aspettano il presidente della repubblica.
Una folla di ragazzini festanti aspettano il presidente della repubblica.

Perché il 25 aprile oggi fa così paura? A Trieste il Comune rifiuta il patrocino ai festeggiamenti, in alcuni comuni del Nord Ovest e del Nord Est si nega ai rappresentanti dell’Anpi la possibilità di parlare dal palco. Pare che la Festa della Liberazione sia diventata un’occasione per alimentare divisioni politiche piuttosto che un momento in cui le memorie diverse possano incontrarsi e comprendersi nella comune identità europea, nata affinché la tragedia del nazifascismo non si ripeta mai più.

Perché tanta animosità contro i festeggiamenti? Forse può aiutare guardare la questione dal nostro confine orientale, dove la Liberazione fu faccenda più complicata che altrove, a tal punto che Trieste, il 25 aprile, non era né insorta né liberata, bensì attendeva – piazza Borsa e piazza Unità deserte, le strade pervase da una tensione sospesa.

Nei suoi diari di quei giorni, domenica 29 aprile, Pier Antonio Quarantotti Gambini scrive: «Qualcuno ci telefona che Mussolini, della cui cattura si è saputo ieri, è stato fucilato. Non posso dire che questa notizia ci sembri, specialmente per noi giuliani, di buon augurio. Sempre il solito difetto degli italiani: scambiare per essenziali le cose che fanno più colpo, e che in realtà sono marginali o superflue. Perché occuparsi tanto di Mussolini?».

E poco dopo invoca l’arrivo delle brigate partigiane dell’Alta Italia, che arrivino presto, perché la città possa liberarsi da sola e non per mano dei partigiani di Tito o dei soli Alleati. «Gli italiani ammazzano Claretta, e non si accorgono che l’ala della storia batte sulle Alpi Giulie».

Cosa voleva dire lo scrittore istriano? Due sono le questioni che i suoi diari ci pongono e che suonano di particolare attualità. La tentazione italiana di guardare alle cose che fanno più colpo invece che a quelle essenziali; la dimensione transfrontaliera della Liberazione.

Di quella tentazione italiana oggi sentiamo l’eco nei discorsi che, del 25 aprile, enfatizzano la caduta del fascismo, simbolicamente condensata nel corpo e nella personalità del capo, molto più di quanto non celebrino la nascita, con la Liberazione, di una nuova società, fondata sui valori che saranno poi alla base della Costituzione.

La differenza sembra sottile o forse retorica, ma non lo è nella misura in cui sono in gioco due diversi modi di rapportarsi alla nostra memoria. Si può infatti stare sulla linea ideale rappresentata dal 25 aprile volgendosi indietro, verso ciò da cui ci si liberava, o sporgendosi in avanti, verso ciò che si stava costruendo.

Fare del 25 aprile un monumento alla fine del fascismo inevitabilmente sposta l’accento sul termine “fascismo”, espone alla doppia tentazione della nostalgia o della rimozione, fa della Storia una reliquia che diventa monito oppure ispirazione, cristallizza il passato in una presenza marmorea capace di gettare la sua ombra immobile sul presente. E una memoria che si fa monumento si trasforma facilmente in arma per nuove dittature o nuove guerre.

Di quel 25 aprile del 1945 dovremmo forse invece ricordare l’energia vitale (a rischio della vita), l’impazienza, gli ideali che portarono le città italiane a insorgere a fianco dei partigiani. Dovremmo ricordare la vitalità della Resistenza, l’energia della Liberazione, la festa che si trasformò in politica. E la sua eredità migliore: il diritto di voto per tutti e tutte.

Riportando così tra noi l’idea di una politica che non sia solo strumento di governo, ma modo di guardare al mondo e agli uomini. Perché votare torni a essere un emozionate esercizio di libertà, nato da quella lotta, non una ricerca di identificazione “in” o “contro” una parte.

Da qui la seconda difficoltà che sottolineano le cronache di Quarantotti Gambini: la memoria del 25 aprile è complessa. Mentre l’Italia tutta festeggiava, Trieste ad esempio ancora attendeva, senza sapere se a liberarla sarebbero arrivati gli Alleati, decidendo per lei il suo futuro, oppure se per primi sarebbero entrati i titini reclamando la città alla Jugoslavia, o se invece si dovessero rompere gli indugi e liberarsi da soli.

La Storia ha poi mostrato come nessuna di queste possibilità accadde serenamente, e Trieste rimase a lungo sospesa finché Stalin non ordinò sbrigativamente a Tito: «Non faremo la Terza guerra mondiale per Trieste».

I fatti venuti dopo, che riverberano nella nazione, hanno segnato l’impossibilità di una memoria unica del 25 aprile. Eppure questa impossibilità è anche una risorsa. Quando il presidente Sergio Mattarella e il presidente Borut Pahor si sono presi per mano davanti alla foiba di Basovizza nel luglio nel 2020 intendevano dire una cosa precisa: no, non che si creasse da quel momento una memoria condivisa (che sott’intende sempre il prevalere di una sull’altra), ma la possibilità che le memorie dei Paesi convivessero insieme, conoscendosi e rispettandosi nel comune orizzonte di un’ideale democratico, di un mondo fondato sui principi dell’antifascismo da cui è sorta l’Europa.

Festeggiare il 25 aprile sul confine orientale era, fino a un qualche anno fa, un modo non solo per celebrare una festa italiana, ma per ricordarci le ragioni fondanti del nostro essere europei: alla Risiera di San Sabba i vecchi partigiani e i bambini entravano festosi (senza controlli polizieschi); i rappresentanti delle istituzioni, della politica, delle forze armate rendevano omaggio; la comunità slovena arrivava con i canti e gli striscioni; il rabbino e il pope ortodosso e il vescovo cattolico levavano i canti; si intonava Bella Ciao.

Il 25 aprile alleggeriva gli animi perché era una festa di tutti e ci ricordava che apparteniamo a una comunità più vasta di noi stessi, capace di tenere insieme rispettandole tutte le differenze, e che proprio in questo sta la nostra migliore forza per costruire un futuro di progresso.

Fare del 25 aprile un momento di divisione è allora il modo più sicuro per sabotare questo futuro, e farci dimenticare che la partecipazione politica è l’esercizio più autentico della nostra libertà, l’unico che abbiamo. E dobbiamo festeggiarlo. 

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