Addio al cattolicissimo Nord Est: un popolo che non va nemmeno più a messa

Se prima in Italia vi partecipava il 36 per cento dei fedeli, oggi siamo al 18; qui numeri sotto la media nazionale, il 16 percento nel Veneto e addirittura 13 nel Friuli Venezia Giulia

Francesco JoriFrancesco Jori

La messa è svanita, andate in pace. Segnala l’Istat che cede, anzi tracolla, la frequenza settimanale alla liturgia, da sempre ritenuta uno dei parametri fondamentali della pratica religiosa: dimezzata negli ultimi vent’anni.

Se prima in Italia vi partecipava il 36 per cento dei fedeli, oggi siamo al 18; con il proverbialmente cattolicissimo Nord Est sotto la media nazionale, 16 nel Veneto e addirittura 13 nel Friuli Venezia Giulia.

Sale con altrettanta intensità la quota di coloro che a messa non ci vanno proprio mai: 32 per cento tra gli italiani, 33 tra i veneti, 36 tra i friulani. Come dire uno su tre.

L’astensionismo massiccio è trasversale alle classi di età; ma si manifesta con particolare rilievo per i giovani tra i 18 e i 24 anni, dove scende all’8 per cento, e tra gli stessi adolescenti tra i 14 e i 17, nei quali si ferma al 12. È una disaffezione che investe anche gli ambienti cattolici più ortodossi: come non pensare allo scarto tra questi dati, e le ondate presenti alle Giornate mondiali della Gioventù, come i due milioni di ragazzi affluiti a Tor Vergata per il Giubileo del 2000?

Certo, nell’insieme il fenomeno è di livello europeo, in cui la partecipazione regolare si ferma tra il 3 e l’8 per cento, mentre l’Italia rimane l’ultima trincea assieme a Polonia e Portogallo. Ma resta pur sempre una sorta di Caporetto, in un Paese dove ancor oggi due persone su tre continuano a definirsi cattoliche.

Gli indicatori Istat confermano gli esiti di un’indagine commissionata dalla Conferenza Episcopale Italiana, dall’eloquente titolo “L’incerta fede”; e coincidono con i rilievi effettuati di recente dal Censis, che segnalano l’esistenza di un individualismo religioso caratterizzato da significativi segnali: ad esempio, tra le persone che frequentano solo saltuariamente la messa, una su cinque prega regolarmente ogni giorno.

In definitiva, sta prendendo corpo un cattolicesimo fai-da-te (per sei su dieci la fede è «un rapporto intimo tra me e Dio»): che riduttivamente si potrebbe tradurre nello slogan Dio sì-Chiesa no, ma che comunque manifesta una secca presa di distanza da valori tuttora ribaditi dal mondo ecclesiale. Un esempio indicativo: se 25 anni fa solo il 22 per cento dei cattolici dichiarati era favorevole all’eutanasia, oggi la quota è schizzata al 63.

Se il fenomeno complessivo rientra nel molto più vasto ambito dei tumultuosi processi di trasformazione sociale in atto, va anche individuata una questione specifica interna al mondo cattolico.

Commentando i dati Giuseppe De Rita, anima del Censis, invita a considerare il nodo di una Chiesa ripiegata su una dimensione orizzontale, che fatica a indicare un «oltre l’io».

Speculare a questo è la micidiale crisi delle vocazioni, crollate in Italia del 28 per cento negli ultimi dieci anni: oggi, i seminaristi diocesani sono in tutto il Paese appena 1.800; e i sacerdoti sono 40 mila, a fronte dei 65 mila di cinquant’anni fa. È un’autentica emorragia, parzialmente tamponata dall’immigrazione: sono 1.500 i preti stranieri (183 in Veneto, 84 in Friuli Venezia Giulia), in misura prevalente africani; e già non pochi di essi fanno i parroci anche a Nord Est.

Sta alla Chiesa per prima interrogarsi sulla crisi e sulle risposte da dare. Papa Francesco la invita a tenere le porte aperte; il problema è se nessuno ci entra più. 

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