Un calcio che non studia e non esporta più

Il livello dei nostri club è medio, la qualità della proposta modesta e il modello sportivo fortuito per non dire inesistente

Giancarlo Padovan
L'allenatore del Milan, Sérgio Conceição
L'allenatore del Milan, Sérgio Conceição

La contemporanea eliminazione di Milan, Atalanta e Juventus dai play-off della Champions League non solo ridimensiona il calcio italiano, ma conferma anche che la finale conquistata, due stagioni fa, dall’Inter e l’Europa League vinta dall’Atalanta, l’anno scorso, erano pure eccezioni.

La regola è che il livello dei nostri club è medio, la qualità della proposta modesta e il modello sportivo fortuito per non dire inesistente.

Non si tratta solo di considerazioni tecnico-tattiche, ma anche di valutazioni che ineriscono il reclutamento dei calciatori (da cui discende il mercato), la gestione delle risorse e le idee che dovrebbero sostenere i progetti.

L’Italia non scompare quasi totalmente dall’Europa che conta (vi resta solo l’Inter) perché non ha stadi all’altezza (anzi, quello di Udine, il Friuli-Bluenergy Stadium, ospiterà il prossimo 13 agosto la finale di Supercoppa europea) o settori giovanili fiorenti. Questo conta, ma non è decisivo nel giudizio. Più rilevante sottolineare come il nostro movimento sia bloccato, a livello dirigenziale e a livello tecnico.

Esportiamo meno allenatori perché c’è poca voglia di studiare e sperimentare (non è un caso che, a parte Ancelotti, all’estero lavorino due della nouvelle vague come Farioli e De Zerbi), mentre abbiano un management che mette ai margini chi non sia legato al potere politico o ai carri di qualche presidente maneggione.

Non siamo un disastro, ma siamo in ritardo. Complessivamente abbiamo un valore medio accettabile, probabilmente da buona Europa League e, però, senza picchi, se non occasionali. Il problema è che siamo alla stagnazione. Archiviato il modello patriarcale, costituito dai grandi mecenati, non abbiamo ancora capito come rapportarci con la nuova realtà economico-finanziaria rappresentata dai fondi di investimento e, più in generale, dalle proprietà straniere. Come adeguatamente spiegato anche su queste pagine, il fine dei fondi non è entrare, ma uscire nel momento strategico più conveniente.

In tutto questo, i costi nel calcio sono aumentati e i ricavi diminuiti depotenziando quasi del tutto la possibilità di acquisto. Se vi si aggiunge una Lega di serie A perennemente in affanno sulla vendita dei diritti televisivi, anche a causa di una congiuntura di mercato sfavorevole, il quadro è desolatamente chiaro.

Nell’ultimo decennio, poi, sembra in calo anche la competenza. Il bulimico ricorso al mercato che, come detto, confligge con la scarsità di risorse, ribadisce una tendenza: trovare fuori dalla squadra o dal club la soluzione ai problemi tecnico-agonistici. Come se prendere un attaccante o un difensore, potesse surrogare la necessità di reperire qualche soluzione alternativa a costo zero.

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