La difficile missione dell’abitare

Non è un semplice stare in un luogo: è un’apertura mentale che trasforma in partecipante attivo

Pier Aldo Rovatti
Una veduta di un quartiere di Trieste (Lasorte)
Una veduta di un quartiere di Trieste (Lasorte)

“Abitare” è una parola bellissima, perché – a mio parere – sveglia la mente e permette di pensare in modo aperto e sempre rinnovato. Mi riferisco all’uso che ne facciano, prelevandola dalla migliore filosofia contemporanea e passata, per indicare un atteggiamento che non è un semplice stare in un luogo: abitare qualcosa è un’apertura mentale che non può tradursi in una semplice conoscenza distaccata, ma che trasforma il soggetto in un partecipante attivo al gesto che compie.

Questa parola mi ha sempre affascinato perché contiene dolcezza e profondità: abitare sé stessi, abitare l’altro, abitare il presente, abitare il passato, tentare di abitare il futuro, sono tutti atteggiamenti di pensiero che non vogliono possedere ciò che tentano di pensare, ma, al contrario, si propongono di entrare nelle questioni senza la voglia di invaderle, con la convinzione che proprio così riusciamo a non essere esterni e superficiali. Certo, il punto fondamentale sta nel tentativo di abitare il proprio io senza pretendere di possederlo o di avere strumenti per farlo.

Ma cosa accade se passiamo da questa dimensione, che potremmo definire “filosofica” (con tutti i se e i ma che accompagnano la parola filosofia), alla greve quotidianità dove l’abitare equivale ai luoghi nei quali si vive, si studia e si lavora, insomma alla “casa” nelle sue varie forme? Se cioè scendiamo nello scenario concreto in cui ciascuno di noi è un abitante più o meno agiato, più o meno disagiato?

Davvero le condizioni abitative, chiamiamole così (per esempio, quelle legate al deperimento degli edifici scolastici, oggetto di una recente manifestazione cittadina), non hanno niente a che vedere con quell’idea di abitare che risuona molto spesso nell’attuale cultura critica? È solo un caso di omonimia? Sembrerebbe difficile negarlo: ma cosa avrebbe a che fare la questione degli sfratti e dell’impossibilità di avere una casa propria (con conseguenze tanto penose quanto molto diffuse, basta poco per accorgersene) con quell’abitare su cui edifichiamo un’etica e un’idea aperta e accogliente di mondo?

Possiamo chiudere gli occhi e dire tranquillamente che non c’entrano nulla. Oppure possiamo allargare un po’ di più il nostro sguardo e affermare che forse si tratta della medesima cosa. Se riuscissimo a operare un simile slittamento mentale ci accorgeremmo che lo stesso problema rimbalza da una parte e dall’altra. Si tratta della questione della rassicurazione nel senso più concreto del termine: cioè di costruire un livello di sicurezza adeguato all’abitare, ovvero di rendersi conto che l’abitare deve essere, innanzi tutto, qualcosa di sicuro, che deve implicare un’abitabilità tale per cui non ti cada il soffitto in testa.

Vi chiederete che cosa significa che questo problema debba slittare da una parte e dall’altra. Come possiamo negare che ognuno di noi desideri una casa insieme accogliente e sicura? Oppure, per meglio dire, una casa che corrisponda, o almeno si avvicini, a un luogo davvero accogliente, e che perciò sia per ciascuno di noi un abitare sicuro, senza che nessuno minacci di mandarci via.

Dovremmo riuscire a immettere in qualche modo questa esigenza di sicurezza in qualunque discorso sull’abitare, se, adoperando questa parola nel suo significato più aperto e denso di pensiero, vogliamo aggiungere un necessario elemento di concretezza. E dovremmo, però, riuscire anche ad aggiungere un arricchimento di pensiero alle esigenze individuali e sociali che ci spingono a manifestare il nostro bisogno di una casa sicura.

Con queste righe, vorrei riuscire a mettere una pulce nell’orecchio al lettore che crede che il problema della casa e la riflessione sull’abitare siano davvero cose diverse, come sembrano nelle ordinarie pratiche quotidiane.

Certo, non sono la stessa cosa, tuttavia credo che se facessimo lo sforzo di tentare di avvicinarle e, almeno in parte, di far sì che si produca una qualche reazione significativa, avremmo arricchito il senso che normalmente diamo alla parola “abitare”.

Non è facile da ottenere un simile scambio, perché, purtroppo, oggi ciascuno sta arroccato sulla propria torretta mentale e facciamo molta fatica a creare passaggi di senso: dovremmo almeno tentare di superare le dighe della comunicazione digitale che spingono in direzione opposta a tali attraversamenti di pensiero.

Le idee di concreto e astratto sembrano fissate nella loro opposizione in modo tale da risultare intoccabili. Come se l’abitare fosse già tutto disegnato e racchiuso nelle forme correnti di pensiero, cosa che qui, come in altri casi, blocca le nostre pratiche, facendo sì che ognuna di esse appaia dotata di un unico senso. —

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