Caso Almasri (e non solo): il tanto rumore e la poca sostanza delle opposizioni
Quello a cui stiamo assistendo, al di là dell’impatto mediatico, non fa altro che ribadire le consistenti difficoltà della sinistra nel risultare competitiva con una maggioranza che rimane dotata di un consenso quasi granitico

Il governo Meloni nell’occhio del ciclone, tra l’affaire Almasri e il caso Pentagon. E, come non di rado, al centro di bufere di natura giudiziaria, sulle quali verte, come evidente, la direttrice principale della strategia delle opposizioni (seppure con alcune differenze di fondo tra i partiti di sinistra e le formazioni centriste).
Lo si è visto in quella specie di redde rationem in favore di telecamere che è stato il dibattito in Parlamento dopo le informative dei ministri Nordio e Piantedosi sul caso Almasri.
Una discussione molto muscolare (a parole e nei toni), da una parte all’altra dell’emiciclo, con trovate a effetto, dall’epiteto di «presidente del Coniglio» scagliato da Elly Schlein alla volta di Giorgia Meloni, definita anche «Omino di burro (altro che Lady di ferro)» da Matteo Renzi, il quale rimane dialetticamente un campione della categoria, e ha tutta l’aria di volersi intestare da qualche tempo il titolo di avversario più tranchant della maggioranza.
Un repertorio retorico pirotecnico che si è inserito dentro un dibattito fuoriuscito dai canoni istituzionali, e su cui le opposizioni hanno con evidenza fatto un rilevante investimento propagandistico.
Ora, non vi è dubbio che la vicenda del torturatore libico sia stata assai grave (al pari di certe dichiarazioni recenti che ventilano uno scontro a tutto campo, in stile trumpista, dell’Italia con la Corte penale internazionale), come pure quella – da approfondire celermente – dello spyware di sorveglianza ai danni di alcuni giornalisti e attivisti, ma l’impressione è che queste battaglie non spostino praticamente nulla nei flussi di opinione degli elettori.
E, anzi, come stanno indicando alcuni sondaggi, premino all’insegna di un effetto boomerang quel vittimismo in cui la premier si rivela particolarmente versata.
Dunque, quello a cui stiamo assistendo, al di là dell’impatto mediatico, non fa altro che ribadire le consistenti difficoltà della sinistra nel risultare competitiva con una maggioranza che rimane dotata di un consenso quasi granitico.
Ed evidenzia, una volta di più, l’eterna e malriposta tentazione coltivata a sinistra di poter sferrare una “spallata” all’esecutivo – o almeno di indebolirlo significativamente – tramite le inchieste della magistratura.
E, così facendo, conferma l’impressione dell’incapacità di risolvere i nodi autentici e le problematiche strutturali di una (mancata) coalizione che procede in ordine sparso, ben lontana dall’idea in cui si erano cullati nel gruppo dirigente dem di poter agevolmente guidare il famoso-famigerato “campo largo”, mentre per converso Giuseppe Conte ha fatto il suo prepotente ritorno in pista.
Nel Pd, insomma, ha iniziato a scoperchiarsi il vaso di Pandora delle insoddisfazioni nei confronti della segretaria (la quale tende a ignorare anche i suggerimenti di Romano Prodi) e, soprattutto, della sua «strategia dell’opossum», volta a farsi incoronare candidata presidente del Consiglio di un’incerta alleanza picconata dallo stesso Dario Franceschini (già suo king-maker deluso), che teorizza ora la navigazione in ordine sparso e il «marciare divisi per colpire uniti».
E non bastano l’approccio referendario, né quello barricadero che lo rende poco distinguibile dalla Cgil. Perché la questione – come avrebbero detto proprio nel vecchio Pci – «è tutta di natura politica», giustappunto; e va oltre l’invocazione da talk show del salario minimo e della difesa della scuola e della sanità pubbliche.
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