Il duro cammino dell’esecutivo europeo che nasce da un’intesa fragile
Circondati da catastrofi i partiti hanno pensato solamente al consenso. Servirebbe uno scatto di maturità e consapevolezza per scansare guerre e stagnazione
Il risultato minimo con il massimo sforzo. Per quello che è – “io voto i tuoi se tu voti i miei” -, l’accordo fra i gruppi dell’Europarlamento sui membri della Commissione Ue poteva arrivare giorni fa, evitando lo sciocco e inutile duello sulla testa dei cittadini fra forze incatenate alle agende nazionali. Non è successo. Hanno tirato la corda, sconfessando anche la regola aurea di Jean Monnet, quella secondo cui l’Europa cresce quando c’è una crisi.
Invece, niente. Circondati da catastrofi annunciate mentre l’Ucraina brucia, i partiti non hanno trovato altro se non fare capricci in difesa di un consenso che si dovrebbe tutelare coi risultati e non con le scaramucce.
Di buono c’è che il Team Ursula può cominciare a lavorare da dicembre e prepararsi al ritorno di Trump, anzitutto. Ma il modo in cui si è giunti a cucire un voto positivo all’Esecutivo di Bruxelles per la plenaria del 27 novembre traccia un allarmante interrogativo sulla capacità delle forze politiche di lavorare insieme per un progresso condiviso, tanto urgente quanto indispensabile.
L’Europa deve svegliarsi se vuole contare negli assetti di un pianeta che si regionalizza e prepara grandi incontri/scontri fra Usa e Cina, col contorno di Russia, India, sceicchi e America Latina pronti a cercare di guadagnare qualcosa per sé in ogni attimo di confusione. Ha bisogno di fare la forza con l’unione, coerentemente col motto fondante, in settori come difesa, sociale, ambiente, cultura e trasporti.
Nel 2025 i Grandi della Terra dovranno cercare di far tacere i cannoni in Ucraina e Israele, impegnandosi a rilanciare l’economia e affrontare le transizioni verde e tecnologica. Se continueranno a discutere come allegre comari, gli europei rimarranno marginali, potenziali vittime di chi ritiene che l’Ue vada smontata in nome dei nazionalismi, come se chiudersi in garage salvasse dalle alluvioni.
Il caso ucraino è angosciosamente lampante. La guerra di Putin funziona secondo schemi tradizionali, quasi scontati. Biden autorizza l’uso delle sue bombe in territorio russo; Zelensky ne approfitta in pieno giorno perché tutti possano vedere; Mosca risponde alzando il livello di ingaggio coi missili intercontinentali. Solo l’avvio di un negoziato serio potrà interrompere la spirale che comprende anche la nuova dottrina nucleare del Cremlino, secondo cui si può usare la bomba anche con chi non ce l’ha. Il problema è chi lo deve fare.
Possiamo attenderci che Trump metta sul tavolo un armistizio che colpisca l’integrità territoriale di Kiev e neghi la prospettiva di ingresso nella Nato e nell’Ue. Se gli europei lasceranno l’iniziativa a The Donald saranno cacciati dalla propria mensa, destinati a un maelstrom politico gonfiato da chi - in casa nostra – sta col magnate Usa (e con l’imperialista ex Kgb) e non si rende conto degli effetti.
Sinora la figura dell’Alto rappresentante europeo per la politica estera è stata poco più di una foglia di fico. Che l’estone Kaja Kallas possa cambiare la tradizione è qualcosa su cui non si scommette. Comandano le capitali, in Europa, con le loro ambizioni spesso non compatibili con la realtà, posto che la Francia è zoppa, la Germania non sarà in pista sino a primavera, e nel Consiglio Ue albergano anime trumpiane e putiniane che rendono complessa ogni delibera. Si risponde al Dna: il polacco Tusk teme i russi, l’ungherese Orbán ci fa affari e spera in Trump, l’Italia aspetta di vedere chi vince. Salvo ribaltamenti di posizioni, questa Europa è in trappola: non fa nulla perché è debole, si indebolisce perché non fa nulla.
Ursula von der Leyen ha costruito la Commissione per incoronarsi sovrano assoluto a Palazzo Berlaymont e tentare di essere lider maxima dell’Europa auto-azzoppata. Tuttavia, l’esecutivo parte stanco. La presidente gioca sullo spostamento a destra dell’Unione (probabile) e sul ritorno dei suoi popolari tedeschi (sicuro). Sulla carta, nei diabolici intrecci di portafoglio, nessun commissario potrà farle ombra. Un esempio? Fitto si occupa della coesione, ma la riforma dei fondi toccherà al titolare del Bilancio, il polacco Severin. Nel dubbio, sarà la numero uno a dire l’ultima parola.
La debolezza politica europea è manifesta.
L’accordo di mercoledì sulle vicepresidenze ha evitato che, dopo aver toccato il fondo, il Parlamento cominciasse a scavare. Eppure, le conseguenze sulle relazioni fra i gruppi non mancheranno.
I numeri dicono che nulla può essere deciso senza i popolari, i quali potranno allearsi coi partner storici (Soc-Dem e liberali) o le destre, a seconda delle esigenze. Ne deriva un combinato di imprevedibilità e litigiosità che marca male.
Soprattutto quando giocheranno i patrioti, gente convinta che Trump abbia ragione nel negare il cambiamento climatico.
Servirebbe uno scatto di maturità e consapevolezza per scansare guerre e stagnazione. È necessario da tempo. Jacques Delors ammetteva che “sta a noi mettere un po’ di carne sulle ossa della Comunità e, oserei dire, darle un po’ più di anima”. Ma la carne, di questi tempi, è merce controversa. E l’anima l’hanno venduta in troppi. —
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