L’autonomia differenziata e le grane di una Corte ferita
Sul referendum per la abrogazione della legge Calderoli si cerca di prevedere le scelte della Corte, ricordando che oggi chiamato a decidere è un collegio ove sono presenti undici dei giudici che adottarono la decisione di novembre
Con recente sentenza la Corte costituzionale ha svuotato di ogni sostanza la legge Calderoli sull’autonomia differenziata, lasciando in vita le sole disposizioni procedurali per la stipulazione delle intese fra Stato e Regioni interessate alla differenziazione.
Ora Governo, Parlamento e forze politiche e sociali attendono dalla Corte una decisione se sia ancora ammissibile l’iniziativa di referendum per la abrogazione della legge Calderoli sottoscritta da un larghissimo numero di elettori.
In sostanza la Corte deve decidere se dichiarare ammissibile il referendum facendo salvi gli intenti dei promotori in quanto interessati all’abrogazione della normativa sostanziale della differenziazione caducata dalla sentenza di novembre e dell’accennata disciplina procedurale; o se optare per l’inammissibilità in quanto i promotori non hanno interesse all’abrogazione di una legge priva della disciplina sostanziale della differenziazione.
Si cerca di prevedere le scelte della Corte, ricordando che oggi chiamato a decidere è un collegio ove sono presenti undici dei giudici che adottarono la decisione di novembre.
Ma qui sorge un problema. Dopo quella decisione sono usciti dalla Corte tre giudici, la cui assenza va ad aggiungersi a quella di un quarto giudice risalente al 2023. Sono assenze di giudici di elezione parlamentare che pesano anche se la Corte può decidere con i restanti undici componenti: una semplice influenza può mettere a rischio il quorum.
Sin qui le due Camere riunite in seduta comune non sono riuscite a coprire le vacanze benché si siano tenuti dodici scrutini dall’autunno 2023, e già tre per sostituire i tre giudici scaduti a novembre. A seguito di questi inutili tentativi per tutte le votazioni valgono le stesse regole in quanto, superata la terza votazione, per l’elezione dei giudici costituzionali non è più necessario il voto di 2/3 dei componenti l’assemblea del Parlamento in seduta comune ma è sufficiente il voto di 3/5.
Le maggioranze qualificate impediscono che i giudici siano espressione di una sola parte politica: per raggiungerle è necessario – stante l’attuale sistema partitico – il concorso di parlamentari di diversa appartenenza. La storia della Corte costituzionale dimostra che una convergenza di più partiti sugli stessi nomi è più facile se, essendo i giudici da eleggere più di uno, si può arrivare ad un’elezione patteggiata di giudici proposti da parti politiche diverse.
Lo ha riconosciuto l’on. Meloni per la quale una soluzione va oggi cercata con interlocuzioni con l’opposizione. Come convenzioni hanno retto nel tempo la conclusione dei relativi accordi, così pare che nella votazione indetta per il prossimo 14 gennaio sarà accettato da tutti un pacchetto di due candidati proposti dalla maggioranza, uno dall’opposizione ed uno di comune designazione per le sue qualità tecnico – professionali. Resta da segnalare il rischio che per la fretta i candidati siano scelti in ragione delle loro posizioni sui giudizi oggi politicamente più sensibili, in primis l’autonomia differenziata.
Invece la selezione andrebbe fatta sulla base di una ampia considerazione del loro atteggiamento sui problemi dello stato costituzionale. Del resto non è male ricordare che la Corte sarà chiamata a giudicare anche dell’ammissibilità di referendum abrogativi in altre materie, e cioè anticipazione della concessione della cittadinanza agli immigrati e Jobs Act. —
Riproduzione riservata © il Nord Est