Separazione delle carriere, no a uno sterile antagonismo

Pinelli (vicepresidente CSM) all’inaugurazione dell’anno giudiziario di Venezia: «Bisogna comprendere se la giurisdizione possa sopportare e risolvere qualunque conflitto sociale»

Fabio Pinelli *
Fabio Pinelli, al centro con il Pm Roberto terzo e a destra e procuratore di Venezia Stefano Ancilotto
Fabio Pinelli, al centro con il Pm Roberto terzo e a destra e procuratore di Venezia Stefano Ancilotto

Signore e Signori.

Come ho avuto modo dire all’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, davanti al Signor Presidente della Repubblica, il Consiglio Superiore, sotto la sua autorevole guida, ha inteso perseguire la via dell’efficienza e della trasparenza, intrapresa lo scorso anno.

Si è così continuato a percorrere la strada già tracciata di una più intensa programmazione dei lavori delle Commissioni per garantire agli uffici giudiziari tempi sensibilmente più contenuti, specie nella nomina di direttivi capaci, orientati alla cultura dell’organizzazione e dotati di adeguato bagaglio professionale.

Il metodo adottato ha consentito l’evasione di un imponente arretrato di pratiche che riguardano aspetti fondamentali della vita giudiziaria: tabelle organizzative, conferme negli incarichi direttivi e semidirettivi, immissione nelle funzioni dei giovani magistrati e tramutamenti, valutazioni periodiche di professionalità dei magistrati.

Del resto, l’efficienza e la trasparenza del Consiglio nell’espletamento dei suoi compiti va intesa come un suo indefettibile e imprescindibile dovere nei confronti di tutti i magistrati, dai quali lo stesso governo autonomo pretende altrettanto rigore e tempestività.

Ringrazio perciò i Consiglieri togati e laici, i magistrati segretari e dell’Ufficio Studi e Documentazione, nonché il personale amministrativo tutto, per il senso di responsabilità e lo spirito di sacrificio con il quale hanno portato avanti il loro lavoro.

In questo modo si è inteso accompagnare il cammino di tutti i magistrati ai quali si richiede un grande sforzo in termini di produttività per il raggiungimento degli obiettivi del PNRR, che consentirebbe di poter contare su risorse per il sistema giustizia fondamentali per il suo ammodernamento.

Altrettanto importante è stata l’attività del Consiglio Superiore tradotta nei pareri resi al Ministro della Giustizia sulle iniziative legislative, sempre improntati alla collaborazione tra Istituzioni e finalizzati a fornire un contributo di meditata riflessione giuridica, nella consapevolezza – invero unanimemente sentita – che l’autorevolezza del Consiglio Superiore della Magistratura passa attraverso il rispetto delle prerogative istituzionali di ciascuno e, quindi, attraverso gli autolimiti che l’organo saprà continuare ad adottare nel rispetto della Costituzione.

Questa esigenza di armonia tra le istituzioni deve essere riaffermata specialmente in questo transito storico, caratterizzato da forti tensioni.

La magistratura attraversa una fase di mutamento epocale che la vede al centro di numerose tensioni istituzionali, molte delle quali dovute anche a fattori esterni alla magistratura stessa e non solo interni alla medesima.

Uno di questi è ad esempio il dramma dell’emergenza carceri, che incide profondamente sul servizio giustizia e su come esso è recepito dai cittadini.

Su questo fronte non è sufficiente il solo impegno della magistratura e dell’avvocatura nel convergente obiettivo di garantire risposte equilibrate, che tengano conto delle esigenze sia di tutela della collettività, sia di umanizzazione della pena, nella finalità costituzionale che deve essere alla medesima riconosciuta.

Il numero di suicidi – non solo di detenuti, ma anche di appartenenti alle forze di polizia penitenziaria – rende ineludibile una riflessione della politica, in attesa dei tempi inevitabilmente lunghi dell’adeguamento dell’edilizia penitenziaria.

Una riflessione che dovrebbe favorire l’adozione di provvedimenti urgenti, che coinvolga in particolare i detenuti per i reati meno gravi, cioè coloro che il carcere potrebbe cronicizzare come criminali recidivi.

Non si tratta di rendere ineffettivo il principio di certezza della pena, ma di non ridurre la reazione dell’ordinamento ad una sterile vendetta che, senza risarcire le vittime e la società, tradisce il senso che alla pena attribuisce la Costituzione come strumento di rieducazione e di recupero sociale del reo.

Un altro fattore – che espone la magistratura a un rischio di sovraesposizione, rispetto al suo ruolo e alle sue responsabilità – è rappresentato dalla trasformazione dell’istituto della disapplicazione delle norme nazionali in contrasto con il diritto UE.

Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e della Carta di Nizza, la disapplicazione ha finito per trasformarsi in un larvato giudizio di illegittimità costituzionale della norma da parte del giudice comune, anziché da parte della Corte costituzionale che, nel nostro ordinamento, è l’organo deputato a dichiarare l’illegittimità delle leggi.

Ciò è stato riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale in numerose pronunce, a partire dalla sentenza n. 269 del 2017 per arrivare, ad esempio, alle recenti sentenze n. 15 e n. 181 del 2024, tanto da ammettere in tali casi che il giudice comune possa sollevare questione di legittimità costituzionale.

Tuttavia, il fatto che il giudice comune possa alternativamente disapplicare o sollevare questione di legittimità costituzionale, senza una inequivoca predeterminazione dei presupposti in cui ricorrere all’una o all’altra, finisce per sovraesporre ulteriormente il giudice, rimettendogli scelte discrezionali che possono essere percepite come politiche, in quanto sostanzialmente disancorate da parametri certi e sicuri, così da mettere in crisi lo stesso principio di separazione dei poteri.

Questo non può non costituire un fattore di preoccupazione, di fronte al quale auspicare che, nel dialogo tra attori politici (nazionali ed europei) e tra Corte costituzionale e Corte di Giustizia dell’UE, si possa pervenire ad equilibri che evitino una simile sovraesposizione della magistratura comune.

In ordine poi alle riforme costituzionali in atto, il Consiglio Superiore della magistratura ha già espresso a maggioranza il suo parere.

Si tratta di interventi riformatori di ampia portata, sui quali non solo è inevitabile, ma forse anche opportuno che siano accompagnati da un dibattito pubblico, scientifico e istituzionale.

La dialettica non può che essere utile, anche al fine di consentire ai destinatari ultimi del servizio giustizia, i cittadini, l’acquisizione di una più precisa consapevolezza delle diverse esigenze in discussione, tra le quali l’imprescindibile garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura.

Più in generale, ciò che dovrebbe essere sempre posto a tema, ogni volta che si intervenga con un progetto riformatore, è il “funzionamento del sistema giustizia”, nel senso che la prospettiva e la ragione giustificativa di ogni innovazione non può che essere il miglioramento del “servizio” offerto ai cittadini nel costante suo adeguamento al mutare del contesto.

La stessa prospettiva – quella, cioè, delle persone a cui si rivolge il servizio-giustizia – dovrebbe essere adottata nel dibattito pubblico che precede o segue tali innovazioni.

È una responsabilità di ciascuno di noi, degli attori istituzionali coinvolti, del Governo, della magistratura e certamente anche dell’avvocatura. È una responsabilità di ciascuno di noi quella di portare il dialogo nella traiettoria del servizio giustizia ai cittadini.

Occorre dunque un cambio di paradigma, con una migliore visione di fondo: la valutazione degli interventi riformatori e la loro conformazione in sede di normazione secondaria, nell’ottica di una efficiente e adeguata tutela dei diritti fondamentali nell’esercizio della giurisdizione.

È, dunque, una “questione di metodo”, che necessita sia una postura di ascolto verso le ragioni di tutti gli attori coinvolti, sia una visione complessiva di quale debba essere il ruolo del pubblico ministero in un processo che è stato fortemente innovato, rispetto a quello vigente ai tempi dell’approvazione della Carta costituzionale.

Se non si vuole dunque che il dibattito sull’ordinamento e sulla cd. “separazione delle carriere” si riduca ad uno sterile antagonismo, quasi di bandiera, e se davvero si vuole mettere al centro la questione del “servizio” reso ai cittadini da un lato e la tutela dei diritti individuali dall’altro, occorre una riflessione più a monte su cosa debba essere il pubblico ministero nel processo moderno e su cosa sia lecito attendersi da lui nell’attuale contesto.

Peraltro, molte altre pregiudiziali di sistema andrebbero affrontate e risolte.

Ancor prima di tutto, comprendere se la giurisdizione possa sopportare e risolvere qualunque conflitto sociale.

Alla giustizia attribuiamo, credo, un potere più grande di quello che in effetti può avere. La giustizia non fa miracoli; non cancella il torto, può riequilibrare ma non risanare. Il risanamento è oltre e altro rispetto all’ordine della giustizia: il risanamento sta nella capacità di una comunità di ricostruire i legami sociali, poggiandoli su un complesso di valori umani – verrebbe da dire etici – condivisi. Tutto ciò è estraneo alla giustizia, perché la giustizia semmai ripara da un torto, non risana.

Ebbene, se si pretende che ogni conflitto sociale sia risolto dalla giurisdizione, se non costruiamo comunità ove siano presenti luoghi di mediazione sociale, se si continua sulla strada di un diritto penale pervasivo, in cui il diritto penale si debba occupare di tutti gli aspetti della vita di un cittadino e di un’impresa, e rappresentare dunque l’unico strumento di sanzione, ogni riforma credo rischi di naufragare negli obiettivi che persegue.

Nella prospettiva del servizio al cittadino diventa poi assai rilevante analizzare in quale modo le riforme ordinamentali incidano effettivamente sui tempi della giustizia, sia in termini di pronta risposta alla domanda di giustizia (intesa come ottimo paretiano tra rapidità e qualità della risposta), sia in termini di conseguimento degli obiettivi del PNRR e delle risorse a questi collegati, risorse tanto più necessarie per il miglioramento del servizio.

Sempre nella medesima prospettiva potrebbero e dovrebbero essere valorizzati i necessari interventi sulla geografia giudiziaria – che deve essere attenta più ai bisogni dei cittadini, che agli interessi degli attori istituzionali coinvolti – e sul reclutamento dei magistrati, che deve essere condotto in modo da garantire a tutti quella “autorevolezza” derivante dalla competenza giuridica, che è il primo requisito della “fiducia” fondante quella “responsabilità sociale” della magistratura che non deve essere confusa con il consenso popolare di natura politica. La competenza come prerequisito dell’autonomia e indipendenza di giudizio del giudice. La competenza come fondamento dell’autorevolezza del giudice.

Su tutto questo occorre che politica e magistratura dialoghino, offrendo ciascuna il contributo che è loro proprio: un contributo di “rappresentanza” per la politica, un contributo di “competenza” per la magistratura, un contributo di “esperienza” da parte dell’avvocatura, che deve restituire la realtà di ciò che in concreto avviene nei processi e della necessità di una più adeguata tutela dei diritti fondamentali.

Un contributo al quale anche il Consiglio Superiore della Magistratura non può e non deve sottrarsi grazie al ruolo che, pur nell’ampio dibattito dogmatico sulla sua posizione nell’architettura costituzionale, in questi anni si è guadagnato, quale depositario istituzionale delle prerogative costituzionali di tutela dei valori di autonomia e indipendenza della magistratura, funzionali al perseguimento dello stato di diritto.

Un’ultima considerazione. Luciano Violante ha affermato che … nelle democrazie contemporanee ordinamento giuridico e ordinamento politico sono confinanti; pertanto ad ogni arretramento dell’uno corrisponde un avanzamento dell’altro. È espressione della sovranità della politica la definizione del confine tra i due ordinamenti. Il Parlamento ha il potere di indicare i confini del giuridico attraverso la definizione delle regole per il funzionamento del Paese. Le regole spettano alla politica, alla magistratura – con insindacabile autonomia e indipendenza – il compito di interpretarle secondo il significato linguistico emergente dal testo, siano esse norme interne o sovranazionali, e dunque di applicarle. Ciascuno per la propria parte e nel rispetto dei limiti delle peculiari prerogative contribuisca all’affermazione di un sistema penale “della Costituzione”.

Impegniamoci, ciascuno per la propria parte e nel rispetto e nei limiti delle peculiari prerogative, per un sistema penale “della Costituzione”, che prevede – prima ancora della separazione delle carriere e del ruolo del Pubblico Ministero nel processo – il rispetto della persona coinvolta nel processo, l’attenzione per i principi di ragionevolezza, la garanzia della prevedibilità delle conseguenze giuridiche, il contrasto dell’ordinamento dall’eccesso di sanzioni. In altri termini, una giustizia penale del cittadino. È quello che in fin dei conti ci chiede la Costituzione.

 

* Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura

Inaugurazione dell’anno giudiziario 2025 presso la Corte di Appello di Venezia

Sabato 25 gennaio 2025

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