Ai dazi di Trump bisogna reagire senza spaventarsi
La minaccia di Trump appare spuntata, ma non per questo è oggi meno credibile. A pagare il precedente aumento delle tariffe d’importazione imposto per le merci cinesi sono stati comunque i consumatori americani
Come insegnano gli esperti di strategia, il valore di una minaccia risiede nella sua credibilità e nell’effetto deterrente, non necessariamente nella sua esecuzione.
La riaffermata minaccia di Donald Trump di imporre dazi alle importazioni negli Stati Uniti appare in linea con questa definizione, soprattutto sull’effetto deterrenza, utile per alzare la posta nei negoziati internazionali. «La suprema arte della guerra – scriveva Sun Zu – è sottomettere il nemico senza combattere».
Qualche dubbio potrebbe tuttavia essere sollevato sulla credibilità di questa minaccia: tutto sommato, anche nel suo precedente mandato presidenziale Trump ha adottato una politica commerciale meno aggressiva di quanto paventato. Con risultati, in realtà, tutt’altro che entusiasmanti.
Quando nel 2016 Trump entra in carica nella sua prima presidenza, il deficit commerciale americano (la differenza tra importazioni ed esportazioni) era di 500 miliardi di dollari.
Nel 2020, dopo la raffica di dazi imposti alla Cina, il deficit era salito a 700 miliardi di dollari. L’amministrazione Biden non ha modificato, nella sostanza, la politica commerciale, investendo però due trilioni di dollari nella politica industriale, uno strumento diverso per lo stesso obiettivo: aumentare la produzione interna, riducendo di conseguenza i beni importati.
Il risultato è che nel 2024 il deficit commerciale ha raggiunto i 900 miliardi.
Come mai questo esito? Da un lato le importazioni cinesi hanno seguito nuove strade per raggiungere il mercato americano, “rivestendosi” di trasformazioni manifatturiere effettuate tramite filiali o partner industriali in altri Paesi, in particolare Vietnam e Messico.
Dall’altro le importazioni cinesi sono state sostituite da altri fornitori esteri, non essendo le imprese americane altrettanto efficienti o interessate a produrre questi beni. In entrambi i casi, il costo delle importazioni è aumentato.
A pagare questo aumento sono stati i consumatori americani, che hanno visto crescere il prezzo dei beni importati anche in conseguenza delle nuove tariffe sulle importazioni, le quali, è bene ricordarlo, non sono altro che una tassa sui consumi. Una tassa subdola, ma non per questo meno pesante e ingiusta.
Il Peterson Institute ha calcolato che il costo delle nuove tariffe potrebbe pesare sul bilancio delle famiglie americane fino a 500 miliardi di dollari, con un effetto regressivo sui redditi.
Del resto, proviamo a pensare a uno dei dazi più usati anche in Italia, che sono le accise sulla benzina. Qualcuno davvero pensa che alzando le accise (imposta indiretta applicata sul consumo di un bene di fatto importato) facciamo pagare le tasse ai produttori di petrolio?
La minaccia, dunque, appare spuntata, ma non per questo è oggi meno credibile. Perché si lega a un’idea “sovranista” che ha come obiettivo principale non tanto l’efficienza dell’economia, bensì riprendere il controllo su un mondo diventato troppo complesso per la vecchia politica.
C’è da chiedersi se l’unico modo per esercitare il controllo politico sia chiudersi nelle proprie frontiere nazionali, oppure cercare una migliore cooperazione tra Stati per governare beni comuni e un sistema di interdipendenze che proprio la tecnologia americana ha contribuito a rendere globali.
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