Difesa comune, l’Europa non aspetti gli Usa
Evidente la preoccupazione che il ri-bilanciamento politico/strategico di Washington verso l’Indo-Pacifico sia a scapito della garanzia difensiva in Europa. L’idea di difesa comune europea torna più che mai attuale
L’idea di difesa comune europea torna più che mai attuale.
Nasce nei primi anni ’50 del ‘900 per la preoccupazione che la guerra di Corea (1950/1953) esondasse in un conflitto con l’Urss in Europa.
Al tempo, il progetto era di schierare sei divisioni europee, sotto il comando dell’allora appena costituita Nato. A minare le intenzioni dei promotori furono le frizioni franco-tedesche, originate dall’ostilità di Parigi al riarmo della Germania a causa dell’ancora vicina memoria del Terzo Reich. Non a caso l'eventuale accordo avrebbe comunque precluso ai tedeschi la possibilità di un proprio esercito a eccezione di una delle citate sei divisioni “europee”.
Poi gli States capirono che la Germania era necessaria alla difesa anti-sovietica e ne accettarono il riarmo graduale e controllato. Rimase però la ferma opposizione della Francia che portò al fallimento del progetto. Se ne tornò a parlare solo nel 2016, quando a Bruxelles rifece capolino il tema della difesa comune dell’Europa.
Il motore di questo ritorno è l’ansia che il Vecchio Continente prova quando si affaccia l’ipotesi del disimpegno militare Usa sul fronte orientale.
Oggi ci risiamo: è evidente la preoccupazione che il ri-bilanciamento politico/strategico di Washington verso l’Indo-Pacifico sia a scapito della garanzia difensiva in Europa.
Considerando l’atteggiamento protettivo di Biden nei confronti dell’Ucraina aggredita dai russi, questo scenario sembrava scongiurato. Ma ora c’è Trump ed è opportuno che riemerga prepotente l'interrogativo sul che fare qualora la Casa Bianca, con atto anche autolesionistico, decidesse davvero di rendere «l’Atlantico più largo».
In questo caso è ovvio che una parte consistente dell’Europa vedrebbe aumentare l’invadenza di Mosca. Almeno allo stato attuale, simili evenienze paiono fermarsi a un astratto esercizio teorico/strategico. In fondo, gli Usa nel ’900 sono intervenuti in Europa in entrambe le guerre mondiali e sembra difficile che vogliano rinunciare al controllo delle “chiavi” dell’Eurasia.
Rimane indubbiamente vero che, con Trump, tra i due lati dell’Atlantico è possibile che nascano forti frizioni. E dunque migliorare in concreto l’autonoma capacità difensiva europea potrebbe far bene a tutti e sia infine opportuno pensare di riequilibrare il quadro delle relazioni militari tra Bruxelles e Washington.
L’obiettivo potrebbe essere un alleggerimento del sostegno americano, che però riconfermi agli Usa una leadership mai messa in discussione soprattutto in alcuni campi, come quello dell’effettivo controllo dello spazio aereo e della copertura satellitare. Insomma, sarebbe suicida per l’Europa pretendere di sostituire il vero provider della propria sicurezza: gli Stati Uniti.
In fin dei conti, il concetto di autonomia strategica europea rimanda a questioni tecnologiche, economiche e di quadro politico.
Stando a quest’ultimo profilo, per gli alleati ha senso in questo momento storico sedersi a un tavolo e affrontare una revisione degli oneri di partecipazione all’Alleanza Atlantica, una maggiore responsabilità decisionale in alcuni settori (esempio: il Mediterraneo per l’Italia) ma, merita ripeterlo, senza rischiare disallineamenti con gli Usa.
Piuttosto, autonomia strategica europea significa prendere atto che la crescente attenzione di Trump al Pacifico implica nuove responsabilità degli Stati europei. Ma sempre - seguendo una costante della politica estera italiana rispetto a quella vetero-gollista alla francese - entro le garanzie di sicurezza assicurate da Nato e America.
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