Quanto pesa la diplomazia personale
Il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump si è tradotto nella conversione alla cosiddetta “diplomazia personale”, una brusca sterzata rispetto a un sistema e una governance delle relazioni internazionali basati sulle reti delle istituzioni sovranazionali


Si dice comunemente – e c’è del vero, eccome – che nella vita la personalità conta assai. Così, per proprietà transitiva (seppure un po’ imperfetta), si può pure dire che in politica è la personalizzazione a contare tanto, e sempre di più.
Correva l’anno 2000 quando il politologo Mauro Calise pubblicava il libro destinato a introdurre nel dibattito pubblico la categoria del «partito personale», indicando la tendenza via via più marcata nella vita politica nazionale a riplasmare gli antichi partiti di massa e i corpi intermedi, facendone delle formazioni leaderistiche.
Un processo in cui si sono saldati fenomeni diversi, dalla crisi delle organizzazioni alla centralità della mediatizzazione e della comunicazione, fino all’antipolitica e al populismo. E da tempo se ne raccolgono i frutti (alcuni dei quali piuttosto velenosi).
Il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump si è tradotto, da subito, nella conversione alla cosiddetta “diplomazia personale”, che costituisce una brusca sterzata rispetto a un sistema e una governance delle relazioni internazionali basati sulle reti delle istituzioni sovranazionali e sull’idea della Nato come alleanza (giustappunto) fra i Paesi dell’Occidente, a trazione Usa chiaramente, ma all’insegna di un sistema normativo e di regole condiviso e riconosciuto.
Nella visione trumpista – connotata anche da una certa dose di imprevedibilità –, invece, la politica internazionale si fa a colpi di relazioni dirette fra potenze e bilaterali con gli altri attori giudicati utili.
Format nel quale trova anche posto la diplomazia personale, secondo la tendenza che assegna il primato ai leader “personalizzati”. Non per nulla il New York Times, a proposito della visita di Giorgia Meloni a Washington, l’ha definita «la leader europea che piace a Trump».
Così, nella formula postmoderna della personalizzazione spinta della leadership troviamo la sintesi di elementi quali la prepotente ricomparsa della dimensione carismatica a vari livelli e in differenti ambiti – sino allo sconfinamento nell’«egomania» di alcune figure politiche (a partire, ovvio, dal presidente americano) –, la ricerca del capo alla stregua di una scorciatoia cognitiva, e quella radice della credibilità consistente nell’identificazione di natura emotiva con il politico dalla personalità spiccata che si propone come il problem solver e colui che taglia direttamente i nodi di Gordio (considerazione che vale da Emmauel Macron a Keir Starmer e Friedrich Merz).
Di qui, la leadership personalizzata dilagante, ma anche maggiormente intermittente rispetto al passato, perché si consuma per l’appunto in modo più veloce.
Con una grande eccezione tutta italiana, quella del presidente Sergio Mattarella, autentica antitesi del modello personalistico, in quanto discendente naturale delle culture politiche della Repubblica dei partiti. Una figura portatrice di un’assoluta identificazione col proprio ruolo istituzionale e di garanzia, ma che, al tempo stesso, nella condizione di permacrisi odierna, risulta anche un fondamentale riferimento e indirizzo politico (apartitico).
L’anti-Trump, in buona sostanza: non certo in termini di personalismi, ma di concezione dei principi di funzionamento della democrazia liberale e nel nome dell’europeismo.
Riproduzione riservata © il Nord Est