Il dopo Salvini matura a piccoli passi

Nella Lega cresce la spinta per il dopo-Salvini, guidata da figure come Massimiliano Romeo e Attilio Fontana: si punta al recupero dell’identità del Nord

Francesco JoriFrancesco Jori
Il ministro dei Trasporti e delle infrastrutture Matteo Salvini
Il ministro dei Trasporti e delle infrastrutture Matteo Salvini

L’autunno del patriarca. In tempi lenti e con modi soft, va maturando nella Lega il dopo-Salvini: non con attacchi frontali, ma con una campagna che fa leva sul recupero dell’identità di fondo del partito, stravolta dal segretario a colpi di diktat unilaterali.

Il messaggio è stato lanciato pubblicamente da una figura tra le più autorevoli, Massimiliano Romeo, capogruppo al Senato e neo segretario dei leghisti lombardi. Forte nella sostanza: «Se non parliamo più del Nord, al Nord i voti non li prendiamo più». E chiaro nel metodo: «La militanza non può essere considerata manovalanza».

Sono due capisaldi che rappresentano l’esatta antitesi della linea- Salvini, riassumibile nello slogan «la Lega sono io», versione padana della celebre massima francese di Luigi XIV: una monarchia assoluta per diritto divino, con i poteri accentrati in una sola persona.

È una scelta che il segretario non solo sta cavalcando da anni, ma che ha pure formalizzato nel 2018, sempre in totale solitudine, archiviando la vecchia Lega Nord e sostituendola con un nuovo partito, “Lega per Salvini premier”; con una linea politica e una serie di atti male accolti da larga parte della base, che si sente trattata come mera manovalanza. Fino al contestatissimo arruolamento di Roberto Vannacci, personaggio del tutto estraneo ai valori e agli stili del leghismo autentico.

Tenendo a battesimo la sua “Lega secondo Matteo”, Salvini aveva enunciato & annunciato l’obiettivo di raggiungere il 20%. La cruda realtà dei numeri segnala che dalle europee del 2019 a oggi il partito ha perso sette milioni di voti; e rimane inchiodato a una scarna oscillazione tra 8 e 9%, a dispetto delle esternazioni seriali di un segretario che si intesta ogni anche modesto segnale, arrivando a speculare perfino sugli incidenti stradali.

Tutto questo senza alcuna legittimazione interna: Salvini guida il partito dal 2013; l’unico congresso in cui si è votato sulla carica risale al 2017; anche quello che si terrà a breve resterà sul piano esclusivamente programmatico. L’autoconferma seriale.

Ma è proprio per questo che nella Lega è partita la controffensiva: a Romeo ha fatto seguito il presidente della Lombardia Attilio Fontana, chiarendo che «il problema del Nord c’è, ed è sempre più presente»; e si è associato perfino il premio Oscar della cautela Luca Zaia, confessando che «a me piaceva di più la Lega Nord».

Non sono voci nel vento: all’orizzonte c’è lo snodo strategico delle elezioni regionali di una realtà come il Veneto, a lungo incontrastata roccaforte leghista, espugnata tra politiche 2022 ed europee 2024 da Fratelli d’Italia.

Non a caso il partito di Giorgia Meloni, sulla base dei numeri, rivendica a voce sempre più alta la presidenza della Regione: come ribadito ieri dal ministro Luca Ciriani. Per la Lega tutta, non solo quella veneta, sarebbe una mazzata micidiale; e non è certo con la linea-Salvini e i suoi magri esiti elettorali che può difendere la postazione. E se cede-cade il Veneto...

Ecco perché una svolta è fondamentale. Serve un partito delle comunità, non delle personalità, ha spiegato Romeo: più chiaro di così...Un’altra Lega, in poche parole. Che allo spavaldo Salvini si potrebbe spiegare con il richiamo a una fortunata trasmissione televisiva anni Settanta di Renzo Arbore, “L’altra domenica”. La cui sigla diceva: «Fatti più in là...». 

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