Alla ricerca di una cultura europea
Sullo sfondo la manifestazione per l’Europa del 15 marzo. Come possiamo negare che parole come “Europa” e “democrazia” rischino di perdere i loro contenuti per diventare dei contenitori dentro i quali non troviamo nulla?

Molti stanno pensando alla manifestazione per l’Europa del 15 marzo, nonostante le perplessità. Si manifesta qui per qualcosa che non c’è, per un’occasione finora mancata poiché dell’Europa che immaginavamo tanti anni fa con la famosa dichiarazione di Ventotene non sono rimaste tracce significative e l’attuale “Europa” risulta una pesante delusione.
Eppure, già prima di questo evento che potrebbe sembrare piccolo e secondario, possiamo constatare che un risultato è stato ottenuto, proprio attraverso la denuncia che dell’Europa che avevamo in mente non è rimasto quasi nulla. Allora bisognerebbe darsi da fare perché questo vuoto culturale possa venire riempito. È troppo poco prendere atto di un tale segnale d’allarme e cominciare a pensare ai motivi per i quali l’Europa risulta oggi un contenitore senza contenuto culturale? Sarebbe stato meglio non accorgersi di un simile fallimento e considerare conclusa la partita?
«Dobbiamo diventare adulti», ha scritto Paolo Rumiz. «Dico solo che abbiamo bisogno dell’Europa», commenta lapidariamente Claudio Magris. E, a seguire, un coro di sollecitazioni che ci invitano a svegliarci dalla sonnolenza con la quale abbiamo finora vissuto la questione.
La guerra in Ucraina non è cominciata ieri, l’intervento di Trump ci ha aperto gli occhi sul nostro pacifismo immobilistico, facendosi capire che è in gioco molto di più che una spartizione accettabile dell’Ucraina: è in gioco, infatti, l’idea di Europa e come l’Italia e ciascun italiano possa accettare che questa idea venga impoverita fino a diventare irriconoscibile, al punto di doverla gettare nella spazzatura.
È inutile il lamento, abbastanza diffuso, di chi ritiene che una manifestazione di piazza conti molto poco, tempo sprecato perché le opinioni sull’Europa sono diverse e in ogni caso non basta scendere in strada senza obiettivi precisi da realizzare. Il risultato è già sotto i nostri occhi ed è documentato da un chiaro desiderio collettivo di chiedersi dove è finita l’Europa, perché sono andati perdendosi il significato e l’importanza di una “cultura” europea, ed è poi evidente che siamo tornati a una visione ristretta al nazionalismo di ciascuno Stato.
Come negare, per esempio, che i nostri figli stiano vivendo da tempo una simile esperienza culturale del mondo troppo stretto in cui vivono, studiano e lavorano? E che, insomma, per chi oggi ha vent’anni l’Europa non è un insieme di quadratini, ma un orizzonte aperto, una circolazione possibile, esperienza di studio e lavoro realizzabile? L’immagine dell’Europa che circola presso le giovani generazioni si spinge ben oltre la guerra e la pace in Ucraina: è e resta un’immagine di vita che va molto oltre uno sguardo ristretto a livello nazionale.
Se al centro di ogni discorso attuale collochiamo parole come “riarmo” e “deterrenza”, con la scia delle loro conseguenze economiche per ciascuno Stato, dell’idea di Europa non resta quasi più nulla e quella bandiera che sventola nella piazza non è più il simbolo concreto di una cultura e di un diritto importanti per ciascuno.
Il riarmo per la deterrenza (sempre che sia solo questo) ha molto poco a che fare con la cultura della democrazia, o soltanto con un dibattito sui punti di vista relativi a queste due parole decisive: cultura e democrazia. Senza le quali ogni discorso sulla “libertà” resta insufficiente e perfino deviante.
Se poi cadiamo, per dirla alla latina, in un «se vuoi la pace prepara la guerra» (si vis pacem para bellum), situazione non così lontana dalle cronache, allora precipitiamo in un vero disastro culturale: apriamo la porta a quello “svuotamento” delle parole a cui si è riferito di recente Gianrico Carofiglio.
Come possiamo negare che parole come “Europa” e “democrazia” rischino di perdere i loro contenuti per diventare dei contenitori dentro i quali non troviamo nulla? Se continuiamo a battere il tasto su parole come “guerra” e “pace”, con tutte le loro varianti (compreso il termine “pacifismo”), ci infiliamo in una strada senza uscita che ci divide in due fazioni: quella che vede i militari e quelli che fraintendono l’idea di pace senza vederne alcuna dialettica interna.
Interrogarsi attorno a una cultura della pace non è così ovvio come può sembrare, considerando che allora dovremmo capire che posto assegnare ad altre parole come “forza” e “giustizia”. Ci sarebbe da ricostruire criticamente un intero vocabolario, aggiungendo almeno il termine “diritti”.
Sarebbe una discussione necessaria, che però di solito evitiamo considerandola come perdita di tempo, specialmente adesso quando prevalente è la fretta e il tempo per riflettere resta poco, sempre che il “riflettere” si consideri ancora utile.
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