Sull’Europa incombe l’incubo stagflazione

In recessione, con poca domanda di beni e servizi, i prezzi dovrebbero stagnare o scendere. E invece a gennaio 2025 si è già registrato un rialzo dell’1,7%. La Bce gioca la contromossa della riduzione del costo del denaro. Ma le varianti sono tutt’altro che sotto controllo

Francesco Morosini
In Europa c'è il rischio stagflazione
In Europa c'è il rischio stagflazione

La corsa dei prezzi si riaffaccia ovunque: negli Usa, nell’Eurozona, e quindi anche in Italia. Il 2024 aveva illuso il Belpaese, con un aumento dei prezzi rimasto attorno all’1% rispetto al 5,7% del 2023. Gennaio e l’inizio di febbraio 2025 parlano di un rialzo stimato attorno all’1,7%.

Ma è la situazione negli Stati Uniti che preoccupa, con dati d’incremento che superano il 3% e allarmano l’autorità monetaria. La Fed, infatti, ha preso atto: si allontanano ulteriori tagli dei tassi. Per molti analisti l’inflazione resta un fenomeno transitorio, dato solo da una nuova fiammata dei prezzi degli energetici. Insomma, un’impennata che, condizioni geopolitiche permettendo, dovrebbe esaurirsi nel giro di mesi. Anche perché il conclamato rallentamento dell’economia dell’Eurozona frena l’inflazione.

La Bce al momento asseconda quest’ultima impostazione. A differenza della consorella di Washington, continua a ridurre il costo del denaro. Lo fa anche perché teme un brutto incubo degli economisti: il combinarsi di recessione e di inflazione assieme. È la stagflazione, in apparenza un fenomeno negatore delle leggi di gravità dell’economia. Nel senso che in recessione, cioè con poca domanda di beni e servizi, i prezzi dovrebbero stagnare o scendere.

Eppure, il fenomeno ci segue come un’ombra, mentre l’economista statunitense Roubini lo vede ormai vicino. La causa? Lo choc d’offerta sommato a politiche monetarie accomodanti. La Bce teme più la recessione e taglia ancora i tassi d’interesse per schivare il Moloch della stagflazione. Ma i dazi imposti da Trump alle merci in ingresso negli Usa e la risposta a specchio di Cina ed Europa rischiano di mandare i suoi buoni propositi per aria.

Tornando ai prezzi, la speranza in Euroarea è che il loro incremento resti transitorio.

Nondimeno, difficilmente potremo ritornare a breve-medio termine a parlare di “fine dell’inflazione”, una chimera annunciata all’epoca d’oro della globalizzazione, da dopo la caduta dell’Unione sovietica al 2008. In quegli anni politiche monetarie espansive potevano convivere con prezzi stabili.

La ratio era demografica e politica, determinata in Occidente dall’ultima coda del baby boom e dal crescente apporto del lavoro femminile; nel resto del mondo, da una grande offerta di lavoro a prezzi competitivi. Ma questo era il mondo di ieri.

Oggi, salvo esplosioni di produttività, quel motore deflattivo è bloccato. Se a ciò si aggiungono l’insicurezza geopolitica e la possibile guerra dei dazi ormai in atto, pare difficile poter riuscire a scamparla. Ma aumentano anche le difficoltà nell’affrontare l’inflazione: lo ha spiegato bene BankItalia, sia nel suo più recente bollettino sia con le parole del Governatore Fabio Panetta.

Sullo sfondo, si profila anche lo stretto legame tra dazi, inflazione e cambio euro/dollaro: l’ecomomista della Bocconi, Tommaso Monacelli, evidenzia due scenari. Per quello soft, i dazi inflazionano l’economia in Usa e spingono la Fed ad alzare i tassi: così si svaluterebbe l’euro sul dollaro. Se di poco (ma quanto basta per compensare i dazi) l’urto sul nostro export sarebbe sopportabile. Al contrario, con una guerra tariffaria reciproca e spinta, importeremmo inflazione data proprio dalle gabelle sulle merci americane. Il meccanismo che si innescherebbe? Inflazione nell’Eurozona, stretta monetaria della Bce e possibile stagflazione. Partita dannosa per tutti, ma Trump sembra non curarsene.

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