L’oblio politico sul fine vita
Fine vita, il Festival di Sanremo dell’ipocrisia. Ma mentre lì è questione di sole canzonette, qui è in gioco qualcosa di molto più alto e strategico: il rispetto della dignità della vita
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Fine vita, il Festival di Sanremo dell’ipocrisia. Ma mentre lì è questione di sole canzonette, qui è in gioco qualcosa di molto più alto e strategico: il rispetto della dignità della vita.
Ignorato da troppe esternazioni politiche di questi giorni, sulla scia di quanto si sta muovendo in materia in alcune Regioni in termini trasversali, dalla Toscana di centrosinistra al Veneto di centrodestra: a partire da un’esecranda ignoranza del significato stesso dei termini, mescolando eutanasia e suicidio assistito, e dall’obiezione che a occuparsene dev’essere lo Stato.
Ma lo Stato chi? I pazienti che vivono un dramma quotidiano? I familiari di quei pazienti, che ne condividono la straziante sofferenza? Tutti noi cittadini che assistiamo disorientati a fiumi di sterili polemiche inversamente proporzionali ai fatti?
No. Tocca, anzi toccherebbe alla politica. La quale peraltro continua colpevolmente ad astenersene, malgrado due richiami formali della Corte Costituzionale, costretta a intervenire in sua assenza.
Di una legge in materia si discute ab illo tempore; tre anni fa finalmente la Camera ne ha approvata una, che però subito dopo si è arenata in Senato, ed è stata sepolta con la fine legislatura. Solo in questi giorni il percorso è ripartito, ma da zero. Però i politici delle Regioni che in larghissima maggioranza (17 su 20) se ne stanno occupando per rimediare al vuoto nazionale, vengono contestati dai loro stessi colleghi dei livelli nazionali: inadempienti seriali, soprattutto perché troppi di loro trattano pure questo tema primario alla stregua di tanti altri, materia di possibile quanto meschino consenso elettorale.
A questo deplorevole atteggiamento se ne accompagna un altro non meno ipocrita: invocando l’alternativa delle cure palliative, che sulla carta è sacrosanta, ma che nei fatti rimane un diritto largamente negato, malgrado la legge in materia sia stata approvata fin dal 2010.
Quindici anni dopo, la realtà dei numeri si rivela impietosa. Su mezzo milione di persone all’anno che ne avrebbero bisogno, soltanto un malato oncologico su tre riesce davvero a usufruirne; per le altre patologie mancano del tutto i dati. Peggio ancora per l’infanzia, anch’essa purtroppo investita dal dramma: su trentamila minori possibili destinatari, solo uno su quattro le può ricevere.
In cinque Regioni non esiste nessun centro dedicato; nelle rimanenti quindici, solamente in cinque funziona un servizio “h 24” e sette giorni su sette.
A mancare è pure il personale: i medici palliativisti sono 750 su un bisogno di 1.600, gli infermieri 1.500 su 4.500. Quanto la questione stia a cuore ai politici, lo dimostra il fatto che l’ultima relazione del governo alle Camere sull’attuazione del provvedimento è ferma e risale al 2017; da allora, tutti assenti ingiustificati.
C’è una legge del 2022 che fissa l’obiettivo della presa in carico entro il 2028 del 90 per cento dei pazienti con bisogno di cure palliative. La scandalosa realtà dei numeri odierni rischia di ridurla a una mera dichiarazione di intenti: come sta già accadendo per quella del 2010, come pure per quella del 2017 sul consenso informato e sul testamento biologico.
Come tante altre su materie che toccano concretamente e da vicino la vita quotidiana. Ma a cui troppi esponenti di partito contrappongono invece il pervicace sostegno alla sola legge che ritengono per loro davvero fondamentale: quella contro il loro fine vita politico.
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