I due pesi di Giorgia Meloni sul caso Santanchè

La premier, pur avendo invocato in passato le dimissioni di altri ministri, mantiene un silenzio imbarazzato sulla vicenda di Daniela Santanchè, accusata di truffa e falso in bilancio

Carlo BertiniCarlo Bertini
Il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni
Il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni

Se Giorgia Meloni sta cercando di far dimettere Daniela Santanchè con la raffinata tattica che usò Cicerone per disinnescare la mina vagante di Catilina, ovvero fargli terra bruciata intorno, ebbene finora non è riuscita nell’intento.

Anche perché a differenza del grande politico e filosofo, la nostra premier non si è certo cimentata con una intemerata pubblica per far capire alla ministra che strada prendere. Anzi. Silenzio assoluto. Si dirà, ma Catilina era un congiurato, voleva sovvertire il potere costituito, la povera ministra del Turismo no e quindi non meriterebbe tale foga oratoria. Vero. Ma a quanto pare, malgrado la difficoltà in cui ha messo la premier, non merita neanche una battuta di censura.

Allora vale la pena un tuffo nel recente passato. Visto che l’opposizione fa sempre il suo mestiere (attaccare i governi) e lo stesso dicasi per i premier (che difendono i propri dicasteri), risulta facile il giochino di riportare frasi censorie rivolte a ministri finiti sotto i riflettori, per chiedere chi le abbia pronunciate e quando.

In questo caso l’imputato di “doppio-pesismo” è of course Giorgia Meloni, che si lanciava in appassionate invettive nel suo momento di “urlatrice” dagli scranni dell’opposizione: faceva strame di chi le capitava a tiro, invocando con foga le dimissioni di Josefa Idem, Federica Guidi, Anna Maria Cancellieri, Maria Elena Boschi, Luca Lotti. Ma solo quando il suo partito era fuori da ogni maggioranza.

Ora invece da giorni si è trincerata dietro un silenzio imbarazzato. Intorno a Santanchè, per l’appunto, la premier ha fatto terra bruciata: nessuno dei Fratelli a difenderla, come fosse un corpo estraneo al partito.

Il bello è che la ministra non è esente neanche lei dal richiamo al “doppio-pesismo”: anche lei invocava il passo indietro della stessa Idem, accusata dal comune di Ravenna di non aver pagato l’Ici, chiedendo all’allora premier Enrico Letta di “sostituirla”.

Ora invece di dimissioni non vuol sentir parlare, malgrado l’accusa di falso in bilancio e quella di truffa all’Inps che potrebbe causarle un rinvio a giudizio a marzo. Pare non ascolti neanche la moral suasion del suo mentore, Ignazio La Russa, presidente del Senato, suo amico e fondatore insieme a Meloni del partito in cui milita la ministra.

Partito di maggioranza relativa, messo all’indice – nel linguaggio cifrato della politica – dagli alleati minori, Lega e Forza Italia, che si sono concessi il lusso di diramare due note ufficiali per difendere loro la ministra del Turismo: professando garantismo (“si è innocenti fino al terzo grado di giudizio”) e guardando i FdI cuocere nel loro brodo e nel silenzio forzato imposto da Giorgia.

Così impotente da non poter far altro che accogliere ieri con un gelido sorriso in consiglio dei ministri la titolare del Turismo, che senza remore se ne è uscita a mento in fuori con un fulgido “si va avanti”, come nulla fosse. Forte di che cosa, non è dato sapere ed è qui il punto politico irrisolto che solleva degli interrogativi.

Ma se la premier non sta esercitando quella leadership che vorrebbe le sia riconosciuta da tutti, un caso dopo l’altro (vedi pure la vicenda del libico riportato in patria con volo di Stato) potrebbe indebolirsi senza accorgersene. In politica basta una sequenza di scelte sbagliate, gli esempi non mancano.

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