La politica contro Report e il bavaglio contro il giornalismo d’inchiesta

Dietro al commissariamento della trasmissione ci sono tutte le incogruenze del sistema RAI, ma anche il vizietto delle querele temerarie verso i cronisti più coraggiosi. Tosi recordman

Renzo Mazzaro
Rai 3, in studio il programma televisivo Report. Nella foto Sigfrido Ranucci
Rai 3, in studio il programma televisivo Report. Nella foto Sigfrido Ranucci

La decisione della Rai di commissariare Report, trasmissione di punta del giornalismo d’inchiesta, ha scatenato polemiche e aperto un caso su quale vale la pena interrogarsi. La circolare inviata dal nuovo amministratore delegato Giampaolo Rossi, nominato lo scorso ottobre, alle strutture interne dell’azienda, introduce un supervisore esterno cui spetta «la gestione editoriale di ogni programma, che in nessun caso può essere affidato al conduttore».

Lo scopo è garantire la coerenza con i canoni del servizio pubblico, i quali, supposto che esistano e valgano per tutti, sarebbero messi in pericolo se il direttore di testata va anche in video. Pare che l’unico a farlo in Rai, ideando e conducendo la trasmissione, sia Sigfrido Ranucci, motivo per il quale l’intervento apparentemente erga omnes è in realtà ad personam. Si vuol portare sotto controllo una trasmissione che viaggia fuori dagli schemi. Un vascello corsaro che colpisce quando meno te l’aspetti, creando grattacapi continui al manovratore.

Codicillo non da poco: in questo modo si dà per acquisito che il giudizio di valore su un’inchiesta giornalistica debba venire da un dirigente dell’apparato e non dal direttore di testata, che è un giornalista pagato apposta per fare questo mestiere. E per risponderne, se occorre anche con la poltrona. Sarebbe come se alla riunione di redazione di un giornale, quando si valutano le notizie e si decide come e dove piazzarle nella foliazione, al posto del direttore responsabile che è un giornalista sedesse l’amministratore delegato dell’azienda. Nessuna redazione lo accetterebbe. Prima ancora nessun amministratore delegato si sognerebbe di farlo. Solo in Rai dove tutto è mischiato succedono queste cose.

Non siamo così ingenui da pensare che nel mondo della “libera informazione” non controllata dai partiti non avvengano le stesse cose, ma si fanno con discrezione: per togliere di mezzo il Ranucci di turno, il personaggio influente che si sente preso di mira porta a pranzo il direttore del giornale, meglio ancora l’editore. Tra gente di mondo si trova sempre la soluzione. Pensano loro a sistemare il giornalista ingombrante senza tanto chiasso. Magari promuovendolo. Promoveatur ut amoveatur, lo facevano anche i romani. Non quelli di oggi, hanno perso l’abitudine.

Va da sé che ci sono giornalisti e direttori di giornale con la schiena dritta, ci mancherebbe, con i quali il pranzo finirebbe a conti separati. Ma è anche vero che non tutti sono come il Ben Bredlee del Washington Post che era pronto a rischiare la poltrona nello scontro con la Casa Bianca per difendere i suoi cronisti che stavano scoperchiando lo scandalo Watergate. D’altra parte uno il coraggio non può darselo, come diceva don Abbondio.

Quelli di Report hanno certamente coraggio ma hanno anche un metodo di lavoro che le altre redazioni Rai non usano: progettano e decidono le inchieste ma non le realizzano direttamente, le affidano ad autori esterni, con una formula che non è né di collaborazione né di appalto. Gli autori sono giornalisti free lance, che autoproducono le inchieste e le vendono alla Rai. La redazione di Report «fornisce loro il supporto per la realizzazione delle puntate – si legge – e fa da tramite tra loro e la Rai per tutti gli aspetti burocratici e di controllo sulla qualità dei contenuti».

Come si vede, e come è ovvio, il controllo interno sul contenuto esiste già ed è giornalistico, com’è giusto che sia. «Lo prevede la legge sulla stampa a garanzia dell’indipendenza della professione giornalistica», ricorda il sindacato dei giornalisti Rai, giustamente in allarme.

Tra l’altro la formula di Report consente alla Rai di risparmiare sui costi. Questo sistema, ideato da Milena Gabanelli conduttrice storica di Report che lo insegna nelle scuole di giornalismo, permette agli autori di lavorare senza tempi contingentati, con il risultato che la trasmissione manda in onda servizi sempre molto approfonditi. Non a caso è diventata una trasmissione emblema del giornalismo d’inchiesta. Piacciano o no, le puntate di Report che si susseguono dal 1994 lo stanno a dimostrare.

Sarà banale ricordarlo ma il giornalismo d’inchiesta punta a svelare cose di interesse pubblico che restano nascoste. Qui succede che l’ostinazione della trasmissione nel cercare le risposte, soprattutto quelle che non arrivano, venga scambiata per aggressività e accanimento da chi non le vuole dare, mentre tutti direbbero che è semplicemente la volontà di non farsi menare per il naso.

Gli è che in una Rai colonizzata dai partiti le domande scomode fanno il gioco dell’avversario politico, motivo per il quale Report passa per un commando guastatori al servizio dell’opposizione. Ecco perché di fronte a quest’idea del “supervisore aziendale” la maggioranza sostiene a spada tratta l’ad della Rai, a cominciare dal senatore Maurizio Gasparri secondo il quale «il diffamatore Sigfrido Ranucci andrebbe cacciato». Con il che si conferma il reale obiettivo della manovra.

Gasparri fa riferimento alle querele che Report incassa, una media di due a puntata (il top in una puntata dedicata a Flavio Tosi, addirittura 19). Qui il discorso sarebbe lunghissimo, facciamolo brevissimo: nel 2023 Ranucci davanti alla Commissione di vigilanza Rai ha detto di aver ricevuto 176 richieste di risarcimento danni, tutte vinte.

Si dimostra che erano richieste temerarie, fatte apposta per impiombare la trasmissione. L’archiviazione le ha trasformate in medaglie al valore per il giornalista. Il senatore Gasparri per chiedere il licenziamento deve trovare un altro motivo. In Parlamento giace da anni una proposta per mettere un freno alle querele temerarie: basterebbe obbligare chi querela a versare un acconto pari a metà di quello che pretende, quota che perderebbe se la querela viene giudicata pretestuosa.

Va da sé che sulla vicenda Report tutti i partiti dell’opposizione reagiscono indignati in difesa di un “baluardo del giornalismo” e chiedono la convocazione della Commissione di vigilanza per capire bene dove voglia andare a parare l’ad della Rai. Ma la Commissione è paralizzata da mesi, perché la maggioranza fa mancare il numero legale. Insomma, siamo alle solite.

Ora, con tutto il rispetto, bisognerebbe anche evitare di costruire monumenti a persone viventi: non sempre Report centra il bersaglio, soprattutto non c’è solo Report che produce giornalismo d’inchiesta in Italia. E neanche in Rai, siamo pronti a scommettere: su 1.858 giornalisti che lavorano nell’azienda (dati del 2018) non è statisticamente possibile che solo i dieci della redazione di Report abbiano come punto esclusivo di riferimento l’interesse degli ascoltatori che pagano il canone e la voglia di lasciare il segno.

Sul giornalismo d’inchiesta si è tenuto lo scorso novembre un convegno all’Università di Padova. Uno degli ospiti, Gianni Belloni, direttore del Centro documentazione sulla criminalità nel Veneto, spiegava che le inchieste in Italia si fanno ma per trovarle bisogna andare sul web. E faceva l’elenco delle testate e dei siti che producono approfondimenti. Sarebbe lungo citarli, ma se è così perché abbiamo l’impressione che l’inchiesta giornalistica sia al capolinea e sulla piazza sia rimasta solo Report, in attesa di sparire come l’ultimo dei Mohicani?

«Forse la questione non è che il giornalismo non produce più inchieste», rispondeva Belloni, «ma che non c’è più un ambiente ospitale per le inchieste giornalistiche. Queste non nascono nel vuoto, ma accompagnano conflitti e mobilitazioni sociali. Se le mobilitazioni languono, le inchieste cadono nel vuoto».

Una diagnosi che ci chiama dentro tutti e trova conferme nei dibattiti televisivi dove si parla di “livello di sopportazione dell’opinione pubblica” completamente mutato, rispetto al passato. La gente ha visto di tutto e ha fatto il callo. In effetti trent’anni fa Alleanza Nazionale era in prima fila a sostenere le inchieste giudiziarie e giornalistiche su Tangentopoli, oggi gli eredi mandano il commissario a imbavagliare “l’ultimo baluardo” delle inchieste giornalistiche e per quelle giudiziarie avviano una riforma che parte non a caso dalla coda, la separazione delle carriere dei magistrati invece della lungaggine dei processi.

Abbiamo fatto davvero il callo a tutto? Teniamo conto che mettere il bavaglio ai giornalisti significa lasciare l’opinione pubblica ignorante, dal verbo ignorare come diceva Giorgio Almirante. E a un’opinione pubblica “ignorante” si può rifilare qualunque spiegazione.

Riproduzione riservata © il Nord Est