La forza della Memoria vince solo se ci insegna a vivere

La Storia non è un selfie, un riassunto semplice, folkloristico. È sullo stile di vita civile che dobbiamo discutere

Fulvio ErvasFulvio Ervas
Auschwitz, l'ex campo di sterminio nazista di Birkenau
Auschwitz, l'ex campo di sterminio nazista di Birkenau

Io che racconto storie a mio nipote, inventando decine di personaggi, dopo pochi giorni li dimentico e lui, al contrario, ricorda ogni piccolo dettaglio. Ha nove anni. Mia madre non ricorda quello che ci siamo detti pochi minuti prima; ha immagini del suo passato antico, ma il presente le sfugge come un refolo di vento. Ha ottantotto anni e il cervello s’è fatto una bella battaglia, con diverse ferite.

È questa la memoria personale: una scatola che si svuota piano piano, se tutto va bene. Altrimenti, quando arrivano gli inciampi, con difficoltà riscontrabili in numerose patologie, la scienza farmaceutica e medica ha messo in campo numerosi principi, tutti con l’obiettivo di rallentare l’alterazione della nostra scatola dei ricordi, cioè il luogo, e la funzione, cerebrale dove colleghiamo spazio e tempo con un certo rispetto dell’accaduto.

Gli esperti di memoria classificano le varie alterazioni e tra queste la pseudoamnesia, cioè la comparsa di allucinazioni più che di ricordi, può strappare persino un sorriso: qualcuno può vedere un tucano uscire dal letto e parlargli.

Quando si parla di memoria collettiva la faccenda è più seria, perché se ci guida una memoria allucinatoria, può accadere di tutto: che qualcuno pensi di poter dire che Hitler era comunista; che si possa tornare al 1903, quando l’America organizzò una sommossa a Panama per convincere la Colombia, allora quello era territorio di sua proprietà, che il canale si doveva fare e doveva essere gestito dagli americani (Carter lo restituì a Panama nel 1979).

Quel che è incredibile, è che molti ci credono perché alcune patologie della memoria collettiva sono contagiose, si diffondono come un virus da contatto.

Esistono farmaci che permettano di non stravolgere o dimenticare il senso degli accadimenti collettivi che abbiamo alle spalle?

Ci provano i libri di storia, le immagini fotografiche e i reperti filmici a fissare momenti importanti delle vicende umane, soprattutto quelle dove abbiamo, collettivamente, commesso sciocchezze quando non orrendi crimini.

Andiamo attribuendo alla memoria collettiva una funzione terapeutica, persino di profilassi preventiva, per non ricascarci. Per garantire ai nostri figli o nipoti che non si troveranno ad affrontare quei nodi terribili toccati a quelli prima di loro. A che altro dovrebbero servire i sacrari della Grande Guerra o le immagini della tragedia del Vajont?

O sono, invece, dei segnali di avvertimento: preparati che prima o poi tutto si ripeterà di nuovo?

Il dubbio viene, per la verità. Il dubbio che il passato non insegni per davvero. Che la memoria collettiva sia uno strumento fragile e, quando non del tutto cancellata, sia manipolabile.

Non potremmo essere noi ad aver vissuto una strana allucinazione? La collettività che è uscita da una guerra con la sconfitta delle dittature e ha costruito un’epoca di pace, sia pure solo europea, fondata sulla democrazia, che sta durando quattro volte più dei regimi che ha sostituito, è stata solo un brutto sogno.

La storia vera, quella che esprime la natura umana che ama permanentemente confliggere, sopraffare, discriminare, alimentata dall’avidità totale, non è forse questa che intende cambiare il nome ai mari, comprarsi gli inuit e la loro terra, fondere il Canada come un cioccolatino e deportare uomini in catene o riconquistare l’Albania, sporcarsi le mani in Libia e, all’occorrenza, affossare l’Europa, convinti che le nazioni senza lacci e regole possano fare benissimo, come insegna la storia raccontata senza la prima e la seconda guerra mondiale?

È con questa narrazione che ci stiamo confrontando.

Perché regrediamo in questo modo?

Perché non abbiamo gli esperti di storia a governare il mondo. E perché la storia può essere osservata da molte angolazioni, non fornisce un’incontrovertibile lettura. Come la memoria individuale, quella collettiva invecchia, perde informazioni, riscrive ricordi, talvolta ha le allucinazioni.

I flussi della società iperveloce rendono più facile convincerci ad affidare il nostro futuro a quelli per i quali la storia è solo adesso, e la fanno solo loro. Perché il passato, così lontano, è solo un paesaggio di cera, cambiabile. Non è accaduto nulla di reale, la realtà è ciò che si decide di fare.

La storia come un selfie, un riassunto semplice, folkloristico. Proclami per rompere gli equilibri mondo, ridisegnare il suo passato, e lasciare poi le solite, immense, distese di macerie.

Il mito dell’epoca dell’oro facendo scavare gli altri.

La sensazione, quindi, è che non basterà la memoria, ma che sia necessario aggiungere un faticoso, quotidiano, lavoro di comprensione di dove stiamo andando.

Perché, come nella vita, la memoria è efficace se determina la scelta di comportamenti, non se è una mostra di ricordi da celebrare. Se ci convince ad avere uno stile di vita che almeno la conservi.

Ed è sullo stile di vita civile che dobbiamo discutere… —

 

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