I cortocircuiti che agitano destra e sinistra

È arrivato quel momento che stavamo aspettando: è sempre stata la politica estera il vero punto dirimente della tenuta delle coalizioni

David Allegranti

Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, accompagnato stavolta da JD Vance, è prevedibilmente gravido di conseguenze. Soprattutto sulla politica estera e le relazioni internazionali, viste le recenti posizioni assunte dalla Casa Bianca.

Ma ha riflessi tutt’altro che secondari sulla nostra politica interna. La corrispondenza d’amorosi sensi fra Donald Trump e Vladimir Putin ha riattivato il vecchio (corto)circuito gialloverde. I leader di Lega e M5s hanno riacquistato vigore dopo mesi di usciate in faccia.

Matteo Salvini è entusiasta di Trump, figuriamoci di Putin. Dopo gli attacchi del ministero degli Esteri russo al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il solitamente ciarliero segretario leghista è rimasto in silenzio (d’altronde anni fa disse che avrebbe ceduto «due Mattarella in cambio di mezzo Putin»).

Giuseppe Conte, sempre indeciso nella scelta fra schierarsi con Trump e un qualsiasi leader liberal-democratico, ha optato alla fine per il presidente degli Stati Uniti: «Trump con ruvidezza smaschera tutta la propaganda bellicista dell’Occidente sull’Ucraina».

Sembra che l’ex presidente del Consiglio non aspettasse altro per rivestire i panni del Trumpiano d’Italia.

Ma sarebbe riduttivo riferirsi solo all’asse giallo-verde tornato in auge per l’occasione (e che occasione). La faccenda è infatti più articolata. Mentre il mondo va a fuoco e l’Ucraina cerca di sopravvivere al possibile ritiro degli Stati Uniti, fin qui al fianco di Volodymyr Zelensky e del suo Paese, per schieramenti, partiti e leader arriva il momento del disvelamento.

Per qualcuno, Giorgia Meloni ed Elly Schlein comprese, era forse persino facile adottare politiche e visioni atlantiste cercando di tenere a bada gli ingombranti alleati. Ora però è più complesso.

Perché la presidente del Consiglio non può permettersi di rompere le relazioni con la Casa Bianca, mentre la segretaria Pd non può permettersi di rovinare i rapporti con i populisti di Conte. Il passaggio è forse fra i più delicati da quando la Russia ha invaso e aggredito l’Ucraina.

La scelta di Meloni di non partecipare alla videoconferenza dei leader del G7 del 24 febbraio - «perfettamente coincidente con la colazione da lei offerta allo Sceicco Mohammed bin Zayed e con il suo successivo intervento al Business Forum italo-emiratino», riferiscono da Palazzo Chigi - è significativa.

L’Italia sarà rappresentata dal ministro degli Esteri nonché leader di Forza Italia Antonio Tajani, al quale peraltro non saranno sfuggite le preoccupate affermazioni di Marina Berlusconi al Foglio («Per porre fine a questo terribile conflitto sarà inevitabile un compromesso, ma sono convinta che la fine della guerra non debba coincidere con la resa di Kiev e la vittoria di Mosca»).

C’è tuttavia un problema per il governo italiano: trovare l’equilibrio fra chi vorrebbe trasformarsi nella quinta colonna del trumpismo in Italia (citofonare Salvini) e chi ostinatamente pensa che l’Ucraina stia combattendo una battaglia di resistenza per la libertà.

È dunque arrivato quel momento che stavamo aspettando: è sempre stata la politica estera il vero punto dirimente della tenuta delle coalizioni.

Vale per il destra-centro, ma anche per il Campo (più o meno) Largo: Schlein chiede a Meloni di decidere «da che parte stare», ma la stessa domanda andrebbe rivolta anche agli alleati populisti del Pd. Di fatto, è iniziata la campagna elettorale per le prossime elezioni politiche. 

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