Il bivio del Pd, un partito da ripensare

La spaccatura emersa all’Europarlamento è clamorosa. Perché contraddice alcuni “punti fermi”, fino a ieri, del partito in Europa. E ora si torna a parlare di congresso

Fabio Bordignon

Il Pd è diviso. E non è una notizia. Ma la spaccatura emersa all’Europarlamento è clamorosa. Perché contraddice alcuni “punti fermi”, fino a ieri, del partito in Europa.

Ma sottolinea anche la necessità di metterne in discussione altri, a partire dall’assetto organizzativo. Tanto più ora che si torna a parlare di congresso.

Ha ragione Antonio Floridia, da sempre tra i più attenti (e più critici) osservatori del modello-Pd. In un articolo per Il Manifesto, ha richiamato la necessità di ricomporre la frattura tra popolo delle primarie e popolo degli iscritti.

La doppia fonte di legittimazione del segretario riflette il compromesso che sta alla base della nascita di questa formazione. Il Pd segna l’incontro tra due tradizioni politiche – post-comunista e post-democristiana.

Ma anche tra due diverse “idee” di partito. Semplificando al massimo: la tradizione del partito novecentesco, dalla quale entrambe le componenti provenivano, e l’intuizione del partito “aperto”. Insomma, il partito degli iscritti e il partito dei cittadini-elettori, chiamati, insieme, a scegliere il segretario.

Attraverso una procedura che parte dai circoli e ha come momento clou il voto nei gazebo. La scelta di coinvolgere la base più ampia – simpatizzanti e promessi-elettori – ha molti detrattori. Perché bypassa la struttura interna, mette in secondo piano i “tesserati”, enfatizza il rapporto diretto tra il leader e il (suo) popolo. Essa, però, ha consentito al Pd di innovare, e di rinnovarsi ciclicamente.

Liberando le energie partecipative della base. Garantendo il ricambio al vertice, anche attraverso leadership di rottura. È stato così soprattutto per due segretari agli antipodi su tutto il resto: Renzi e, appunto, Schlein. Proprio in occasione dell’ultimo congresso, le primarie hanno ribaltato il voto degli iscritti. Delineando una frattura che persiste. E spiega i malumori nei confronti della segretaria, esplosi nel voto sulla difesa europea.

A oltre 17 anni dalla fondazione del Pd, tuttavia, la politica è profondamente cambiata. Il digitale ne sta ridisegnando i contorni. Lo stesso M5s, che per primo ha esplorato le potenzialità della rete, si è trasformato.

Da potenziale alleato, il leader 5S oggi sfida il Pd, descrivendolo come “troppo plurale”. Mettendo il dito nella piaga – la cronica incapacità di parlare con una sola voce –, Conte trascura però come il pluralismo sia un tratto fondativo del partito. Inscritto nella stessa scelta del nome. Con il governo Meloni saldamente al potere, il Pd si trova forse appena alla metà di una lunga traversata nel deserto.

Insieme all’impegno profuso sul fronte delle alleanze – anzi, ancor prima –, Schlein farebbe bene a dedicare parte di questo tempo e “mettere mano” al partito, la cui struttura mostra i segni del tempo. Richiede un upgrade, proprio a partire dalle modalità di selezione della leadership e dalla definizione della base.

Se deciderà di cimentarsi in questa impresa, potrà sfruttare quella spinta dal basso e quel profilo movimentista che le viene attribuito da sostenitori e avversari. Ma non potrà rinunciare alla storia, all’identità, ai valori fondativi del partito che guida. E alle diverse sensibilità che contiene.

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