Il caso Sala e perché dobbiamo ringraziare lo Stato di diritto
Addolora profondamente ma non stupisce quanto sta subendo Cecilia Sala, imprigionata prima che fosse formulata alcuna ipotesi di reato a suo carico, con un’imputazione emersa solo dopo averla rinchiusa nel carcere di Evin a Teheran
Se a qualcuno di noi capitasse di trovarsi sulla porta di casa due poliziotti venuti non solo per chiedere informazioni, per prima cosa ci mostrerebbero un provvedimento firmato da un magistrato, con elementi specificati a giustificazione della loro presenza lì: senza, nessun cittadino di uno Stato liberal-democratico può finire agli arresti, anche se temporanei, in attesa di “giusto processo”.
Questo accade perché nella cultura dell’Occidente è venuto affermandosi, non senza difficoltà e resistenze, il cosiddetto “Stato di diritto”, che gli anglosassoni chiamano rule of law (letteralmente: la “regola della legge”). Sono due modi per definire il medesimo principio, che è etico prima ancora che giuridico o politico: nessuno può essere incarcerato senza essere giudicato da un organo indipendente dal potere politico appositamente costituito e composto da funzionari dello Stato che rispondono solo alla legge.
Anche se non sempre l’organo giudiziario è all’altezza del compito, come in tutte le cose umane accade, per noi cittadini di uno Stato liberal-democratico tutto questo sembra scontato.
Così è per effetto del principio dell’habeas corpus, espressione latina che sta a indicare il diritto di ognuno di essere preservato nell’integrità fisica, senza subire torture o violazioni, fino a quando non sia stato condannato.
Quel principio è presente nella cultura occidentale sin dal 1215, quando Giovanni Senzaterra, re d’Inghilterra, promulgò la Magna Charta Libertatum, dove all’articolo 39 quel principio è espresso. Ma così non è nei regimi che si ispirano a princìpi diversi, dove non esiste, di fatto, nulla che assomigli al principio dell’habeas corpus. E non fa differenza se quei regimi sono teocrazie (come nei Paesi di cultura islamica) o dittature di vario genere in cui il potere è in mano a un autocrate o a una ristretta oligarchia che si rifà a ideologie totalitarie.
Addolora profondamente, dunque, ma non stupisce quanto sta subendo Cecilia Sala, imprigionata (con una carcerazione i cui modi di per sé già rappresentano una pesante forma di tortura) prima che fosse formulata alcuna ipotesi di reato a suo carico, con un’imputazione emersa (e formulata con genericità sconcertante) solo dopo averla rinchiusa nel carcere di Evin a Teheran, prigioniera del regime degli ayatollah iraniani.
Per essere, presumibilmente, usata come “merce di scambio” in vista della consegna alla Repubblica islamica di un cittadino iraniano in custodia cautelare in Occidente (in un carcere in cui viene trattato con le garanzie e i riguardi dovuti) perché accusato di reati circostanziati, da dimostrare in un regolare processo, secondo la rule of law.
Non ha senso fare una classifica delle civiltà nella storia e neanche nel mondo contemporaneo, ma è sicuro che mai come nell’Occidente l’essere umano è stato oggetto di un così grande rispetto, e considerato “sempre come fine e mai come mezzo”, per riprendere la formula di Immanuel Kant, quantomeno in linea di principio. Lo tengano a mente i politici nostrani innamorati degli autocrati (come Matteo Salvini, pronto a «scambiare due Mattarella per mezzo Putin»), ma anche quegli esponenti della cultura woke che, inneggiando a un malinteso relativismo culturale considerato come valore etico indiscutibile, di fatto stanno operando per affrettare il suicidio della civiltà dell’Occidente.
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