Il peso reale delle minacce di Trump
«The Donald attacca e poi frena», è la convinzione di Bruxelles. La parte preoccupata dell’America potrebbe rivelarsi alleato prezioso


Se aveva ragione Abraham Lincoln nel dire che «si possono ingannare tutti per qualche tempo e alcuni per tutto il tempo, ma non tutti per sempre», allora Donald Trump rischia di andare diritto contro un muro. In due mesi dal cambio alla Casa Bianca, gli indici di fiducia a stelle e strisce sono precipitati in modo preoccupante. In marzo l’umore dei consumatori Usa è calato per il quarto mese consecutivo, mentre le aspettative sono crollate di quasi dieci punti sino alla soglia di 65,2, la più bassa da dodici anni, ben sotto il livello dell’80 giudicato segnale di recessione imminente.
Significa che gli americani cominciano a diffidare dell’Età dell’oro promessa dal neopresidente e temono che le cose possano mettersi male. Se lo pensano da quelle parti dove hanno votato repubblicano allegramente, figuriamoci noi vecchi europei che a Washington siamo considerati dei “parassiti” e gente che non vuole altro se non “fregare” gli alleati a stelle e strisce.
La strategia commerciale di The Donald, con le sue accelerate a singhiozzo, ha confuso tutti. Ha bruciato miliardi di capitalizzazione nelle Borse, che in poche settimane hanno consumato un decimo del loro valore. Ha disorientato l’economia globale e quella interna.
Sul fronte casalingo, l’incertezza e il rischio di un aumento dell’inflazione ha congelato la discesa dei tassi, peggiorando le prospettive di gestione di un debito federale che si gonfia a vista d’occhio. L’agenzia di rating Moody’s certifica che la situazione di cassa americana «si sta deteriorando» e che «la capacità fiscale è sulla strada di un declino pluriennale». Implica che la tattica commerciale sta facendo danni, perché i dazi li pagano in buona sostanza gli americani e penalizzano anche una fetta rilevante dell’industria nazionale, a partire da quella automotive.
La sensazione che si raccoglie fra gli economisti europei è che l’assedio di Trump «non può andare avanti a lungo». Si semina quel che si raccoglie, assicura una fonte diplomatica di Bruxelles. E subito snocciola il balzo dell’indice della fiducia tedesco, passato a 87,7 in marzo dall’85,6 di febbraio, dato migliore da un anno in qua. È la reazione al piano miliardario del cancelliere in pectore Friedrich Merz, mossa storica che fa debito per rilanciare la Difesa e le infrastrutture, quindi risollevarsi dalla crescita zero. Può farlo perché il buco di Stato è al 63%, stima la Commissione, la metà di quello italiano. Il messaggio di Berlino, chiaro e credibile, è passato, dando una mano di rosa al clima in Germania.
Il commissario Ue al Commercio, Maros Sefcovic, tratta con gli States. È il suo mandato. Occorre che i partner europei lo sostengano nel condannare i dazi “ingiustificati”, principio che da noi trova consensi al Quirinale, nella componente FdI e FI del governo, oltre che in parte di quella leghista. Il 2 aprile dovrebbero partire le misure americane con lo strambo “Giorno della liberazione” annunciato dalla Casa Bianca.
«The Donald attacca e poi frena», è la convinzione di Bruxelles. È un modo per invitare a tenere duro ed essere compatti, nel commercio e nelle strategie comuni di rilancio: «Ci sono i margini». La parte preoccupata dell’America potrebbe rivelarsi alleato prezioso. Come i leader globali da Parigi a Mexico City che, nota il Financial Times, hanno guadagnato consensi da che c’è Trump. Perché, è la speranza ragionevole, «non li può fregare tutti per sempre». —
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