Che fine rischia di fare l’Occidente?

Siamo a un passo da una crisi strutturale dell’atlantismo

Massimiliano PanarariMassimiliano Panarari

Che fine rischia di fare l’Occidente? Tutt’altro che desiderabile, a giudicare dalla crisi profonda dell’ordine internazionale retto dagli Stati Uniti prima del ritorno del ciclone Trump. Talmente dirompente e violento da avere paradossalmente prodotto il “miracolo” del vertice londinese di Lancaster House, allestito in tempi rapidissimi per tentare di dare una risposta all’improvviso (e improvvido...) lavorìo della Casa Bianca.

E rimane, difatti, tutto da vedere quanto le mosse del presidente degli Stati Uniti avvicinino davvero la pacificazione a colpi di forzature e umiliazioni del leader ucraino, da lui platealmente detestato. Le conclusioni del vertice di ieri – animato dai rappresentanti di 16 Paesi euroatlantici, della Nato e dell’Unione europea – accendono così qualche segnale di speranza in un contesto complessivo che è andato facendosi ancor più fosco.

L’annuncio del piano per la pace francobritannico e dei due miliardi di euro da destinare al finanziamento della difesa aerea dell’Ucraina rinfocolano l’idea che l’Europa – in questo caso con il ruolo trainante di una Gran Bretagna, che si sta riassestando dopo lo choc della Brexit – possa essere effettivamente in campo e non sia destinata esclusivamente al triste avvenire di un vaso di coccio tra i vasi di ferro. Il paradigma che la seconda presidenza Trump ha già iniziato a rendere operativo è, infatti, quello di un «grande balzo all’indietro» e del ritorno a un “metodo Jalta” fatto di spartizione delle spoglie dei più deboli fra le maggiori potenze. L’opposto in tutto e per tutto, alla luce delle varie fragilità dell’Ue, del progetto di «Assicurare il nostro futuro», come recitava lo slogan del summit di Londra sull’Ucraina e la difesa comune.

Come ha evidenziato su queste colonne Renzo Guolo, ci troviamo a un passo dal baratro di una crisi strutturale dell’atlantismo, dal momento che Donald Trump non crede minimamente in quella che è stata la visione di fondo del Patto atlantico, inteso non soltanto nei termini di un’alleanza militare, ma anche come una formula di solidarietà at large e di natura più generale fra i Paesi dell’Occidente. Ovvero, il paradigma che ha consentito la prosperità sostanziale del blocco occidentale e il superamento dei durissimi anni della Guerra fredda.

Proprio per questo, sostenere la necessità di stare sempre e comunque con l’America si rivela adesso un argomento puramente retorico: l’Europa ha oggi il dovere – anche morale nei confronti delle generazioni dei suoi abitanti più giovani – di provare a strutturarsi quale spazio effettivo dell’interesse generale, e non più unicamente come mercato e sommatoria degli interessi particolaristici dei suoi singoli componenti (e specialmente di quelli che contano maggiormente).

Trump non condivide la concezione dell’Occidente quale unità e “coalizione” politica – difatti, punta a generalizzare una rete di rapporti bilaterali –, e come spazio di solidarietà (non a caso, ripete in continuazione che i Paesi europei devono «pagare di più»).

Né, men che meno, la visione di una cultura e di una civiltà fondate sull’Illuminismo e l’allargamento dei diritti. Di qui, l’esigenza di una reazione e della messa in chiaro delle sue contraddizioni. Verosimilmente, infatti, la politica commerciale protezionistica e degli annunciati dazi genererà un incremento dell’inflazione, andando a penalizzare proprio il “popolo Maga”. E la Russia non verrà separata dalla Cina, ma un Vladimir Putin rilegittimato potrà utilizzare in maniera sempre più pericolosa il suo potere negoziale.

Europa, se ci sei, batti un colpo. Come a Londra.

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