Le debolezze dell’Italia sul riarmo

Se il Pd non segue Romano Prodi sul fatto che «il riarmo è un primo passo necessario e con l’esercito europeo Mosca si ferma», allora vuol dire c’è un problema. E se si aggiunge la voce Paolo Gentiloni, allora l’affare si ingrossa

Carlo BertiniCarlo Bertini
La segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein
La segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein

Se un partito come il Pd non segue il suo primo presidente (eletto quando era premier nel 2007) Romano Prodi, sul fatto che «il riarmo è un primo passo necessario e con l’esercito europeo Mosca si ferma», allora vuol dire c’è un problema.

Se a questa voce si aggiunge quella di un altro ex premier come Paolo Gentiloni, che del Pd è stato fino a ieri il massimo rappresentante in Europa, allora l’affare si ingrossa. E assume i contorni di un mutamento del Dna, salto all’indietro che forse accontenta la massa di elettori pacifisti e più di sinistra; ma che di sicuro per essere digerito, come ha notato l’ex senatore e capogruppo del Pd Luigi Zanda, richiederebbe un congresso straordinario. Che non ci sarà, poiché nessuno dei mille dirigenti (delle dieci correnti del Pd) ha raccolto quel sasso lanciato nello stagno.

Più a stretto giro, il problema si porrà nella sessione plenaria del Parlamento Ue che si svolgerà da domani a giovedì a Strasburgo, dove si discuteranno due questioni: la conferma del sostegno militare all’Ucraina dopo il bye bye di Trump e il futuro della difesa europea.

Con un epilogo, utile a dimostrare la solidità dell’Europa in questo frangente, ma che per l’Italia sarà fonte di imbarazzo: la votazione di risoluzioni, per dare il via libera ai principi ispiratori del piano di riarmo europeo, illustrato agli eurodeputati da Ursula von der Leyen: voto che segnerà un crocevia della storia europea, cui la “maggioranza Ursula” (formata da Ppe, Pse, Renew e Conservatori), si dimostrerà solida, ma non altrettanto quella di uno dei Paesi fondatori, quello dei Trattati di Roma. Con un ulteriore vulnus: non solo i partiti di maggioranza, ma anche quelli di opposizione andranno in ordine sparso.

A dispetto del principio di unità nazionale in politica estera che ha contraddistinto ottanta anni di vita politica italiana. Dando così una dimostrazione di preoccupante debolezza rispetto ad altri partner europei, più consapevoli delle minacce, militari, digitali e commerciali, che incombono sul continente.

Dopo l’assenso al piano di riarmo al Consiglio europeo, Giorgia Meloni non rischia figuracce, poiché il suo gruppo dei Conservatori europei giovedì ne voterà le linee guida. Così come il Ppe del cancelliere in pectore Merz, del polacco Tusk e del nostro vicepremier Tajani.

I Patrioti diranno no e con loro i rappresentanti della Lega. Così come, sul fronte delle opposizioni, dirà no la pattuglia dei 5 stelle e dei Verdi-Sinistra, mentre dai banchi degli europarlamentari Pd si leverà una nube sulfurea: alcuni è prevedibile che diranno no (Marco Tarquinio e Cecilia Strada), altri di sicuro sì (i riformisti Gori, Picierno, Tinagli, Nardella, Ricci) e altri (Laureti, Ruotolo, Corrado, vicini alla segretaria) forse si asterranno.

A meno che Elly Schlein non si faccia convincere dal distico inserito nel testo della risoluzione del gruppo dei Socialisti e Democratici del Pse, dove si dice che il Parlamento «accoglie con favore l'iniziativa ReArmEU quale primo passo importante», ma che «i soli aumenti della spesa nazionale, senza risolvere i problemi di coordinamento, potrebbero peggiorare le cose».

Se a Schlein basterà questa puntualizzazione, bene. Altrimenti il Pd si staccherà dai binari del Pse e forse qualcuno ne chiederà conto e ragione alla leader.

Riproduzione riservata © il Nord Est