Italia al bivio sui miliardi per la difesa

Spendere il 2 per cento del Pil per la difesa nazionale è «un punto di partenza non di arrivo», assicura il ministro Crosetto. Un sacco di soldi che non ci sono

Marco ZatterinMarco Zatterin

Spendere il 2 per cento del Pil per la difesa nazionale è «un punto di partenza non di arrivo», assicura il ministro titolare di cattedra, Guido Crosetto. Tradotte in numeri, le sue parole determinano la volontà di elevare gli esborsi per la sicurezza nazionale dai 34,4 miliardi di dollari del 2024 ai 46,2 miliardi di un futuro prossimo, dunque di trovare quasi 12 miliardi in più l’anno per salire dall’1,49% del Pil attuale alla nuova soglia minima auspicata. Ne servirebbero di più se ci si volesse spingere al 3%, obiettivo che allargherebbe l’esborso annuale di 35 miliardi sino a quota 69,3.

Un sacco di soldi che non ci sono. E che, se si ritiene che l’Italia (come tutti i Paesi del mondo, al netto dell’Islanda) debba avere un esercito, una marina e un’aeronautica, bisogna tirar fuori. Oppure raccogliere nella casa comune europea, come suggeriscono i partner Ue e come avrebbe senso fare in questi tempi difficili di guerre brutali e cataclismi geopolitici.

Le fonti romane dicono che «almeno il 2% per la Difesa» sarà uno dei messaggi che la premier Giorgia Meloni porterà dopodomani a Washington all’incontro con Donald Trump. È un livello minimo di cui i Paesi della Nato parlano da tempo, ma che è stato in buona parte trascurato.

Nei corridoi dell’Alleanza si immagina un accordo al vertice estivo dei Trentadue in programma a L’Aja per accogliere il 3-3,5% del Pil (713 - 835 miliardi complessivi) quale nuovo riferimento condiviso. Si tratta di uno sforzo importante, reso necessario dalla sensazione che il conflitto in Ucraina sia solo il primo passo di un ulteriore espansionismo russo, e dalla evidente indisponibilità dello Zio Sam a pagare la difesa degli altri, come se questo non lo riguardasse (lo riguarda, eccome!). Tutto lascia presagire che un’intesa verrà.

Gli europei vogliono interrompere la catena che porta il 30% dell’export di armamenti americani ad atterrare nel Vecchio Continente (150 miliardi di dollari, dato 2023). Non riarmarsi, come suggeriva sfortunatamente il titolo del piano originale di Ursula von der Leyen, ma rafforzare la difesa sotto il tetto Nato e renderla indipendente, magari con tre modelli di carri armati e non diciassette. Uno scudo europeo, insomma. Per questo ci sono 800 miliardi di Readiness 2030, 650 dei quali deriverebbero dallo scomputo dal Patto di Stabilità delle spese per la difesa, le quali non verrebbero più considerate per il rispetto del famigerato 3% del rapporto deficit/Pil. Altri 150 verrebbero dal fondo Safe, prestiti agevolati a 45 anni per appalti congiunti Ue.

L’Italia deve scegliere. Non semplice. Perché il ministro dell’Economia, lo stesso che chiede la sospensione del Patto di Stabilità per bilanciare la crisi innescata dai dazi (che per ora non c’è), frena sui prestiti di orientamento militare, come del resto il suo partito imbevuto di euroscetticismo populista. I titolari della Difesa e degli Esteri, in linea con ciò che si capisce pensi la premier, sono invece per valutare il nodo della strategia comune a dodici stelle. Conviene dal punto di vista contabile e relazionale, fa piacere a Trump (non tanto all’industria Usa) e rafforza l’Europa. Se dobbiamo essere armati, e sarebbe bello non doverlo essere, è la direzione più efficace e meno costosa a cui presto o tardi deve arrivare pure l’Italia. Anche se, per coerenza con il Dna politico nazionale, la nostra strada somiglierà più a un arabesco che a una linea retta. —

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