L’Italia frena con un occhio alla Germania
Il governo pronto a dimezzare le stime per la crescita del Pil. La situazione è seria eppure sarebbe sbagliato dire che il destino è segnato. È necessario che l’esecutivo studi un’offensiva di sostegno vero a chi produce e vende nel mondo, con ricadute certe sul lavoro


Con onesto e inevitabile pragmatismo il governo si è risolto a dimezzare le stime per la crescita italiana. Oggi, salvo colpi di scena, verrà diffusa la previsione di un Pil in salita a fine anno dello 0,6%, la metà di quanto annunciato in autunno, lo stesso numero indicato (per ora) da Bankitalia e Confindustria.
Atto dovuto che riflette una situazione chiara già da gennaio, quando la velocità di uscita dell’economia dal 2024 lasciava capire che il traguardo indicato dal Patto di Stabilità non sarebbe stato raggiunto. Ci si è decisi nel momento giusto, perché la tempesta creata dalla «operazione commerciale speciale» di Trump ha generato incertezza e tensioni sufficienti a far considerare la mossa “normale” dall’opinione pubblica.
In realtà il nuovo dato non comprende gli effetti inestimabili dello tsunami dei dazi scatenato dall’America: dovrà essere rivisto ancora, al ribasso, probabilmente di un quarto di punto, almeno. Nei prossimi mesi andremo a un passo dalla stagnazione. Ma la recessione è un malocchio che si può evitare.
La minore crescita è ovviamente un problema. Implica di non poter garantire il volume di entrate necessarie per sostenere nuove spese nei settori che boccheggiano, come la sanità, e fotografa una congiuntura in cui non sarà facile intervenire a sostegno delle imprese e di un lavoro che cresce senza liberarsi dallo strazio di una precarietà elevata e dei bassi salari.
Il risultato più magro genera inoltre criticità per la gestione dei conti pubblici in relazione agli obiettivi di risanamento concordati con i partner Ue. L’esigenza di riportare il deficit sotto il 3 per cento del Pil entro il 2026 diventa più difficile, poiché il numeratore ridotto alza il valore della frazione. La frenata generalizzata dalla discesa dei tassi in Europa, che la guerra dei dazi giustifica, accelererà l’incremento della spesa per interessi (stimata al 3,9% del Pil), dunque un esborso di denaro pubblico più elevato rispetto al programmato.
I margini di manovra del governo saranno più stretti. Ancora più stretti. Il che fa maledire l’inefficienza della gestione del Pnrr. Secondo i dati ufficiali, tra il 2020 e il 2024 l’Italia ha speso appena 63,9 miliardi di euro, che equivale a poco più della metà dei fondi ricevuti finora (52%) e un terzo del totale previsto dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il loro contributo alla crescita è inferiore allo 0,2 punti di Pil. Oltretutto, i soldi che restano da iniettare nel motore del Bel Paese scadono fra poco più di un anno. Si può immaginare una proroga della scadenza, ma comporterà nuovi impegni in termini di risanamento e riforme.
La situazione è seria eppure sarebbe sbagliato dire che il destino è segnato. Esiste una parte del sistema di imprese italiane che può correre e trovare nuovi sbocchi di commercio. È necessario che il governo studi un’offensiva di sostegno vero a chi produce e vende nel mondo, con ricadute certe sul lavoro. Questo Paese sa fare affari. Scommettere sulle relazioni europee sarà di aiuto centrale.
Perché, oltretutto, entro l’anno cominceranno ad arrivare gli effetti del piano di rilancio dei tedeschi, nostri primi partner commerciali. Abbiamo la forza per fare noi il primo passo. Ma se dovesse andar male, per i soliti motivi di burocrazia e pigrizia politica, alla fine potrebbe darci una mano vera la Germania. Con i suoi euro e la sua disciplina.
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