La solitudine di una ministra indesiderata
Mai si era visto un ministro rimasto solo in aula a difendersi da una mozione di sfiducia, come è capitato a Daniela Santanché, privata di qualunque sostegno dai Fratelli d’Italia, mentre veniva sbranata dalle opposizioni

Montecitorio, ore 14: si apre il sipario su una scena da teatro dell’assurdo, con i simboli di Beckett e Ionesco squadernati, dalla solitudine all’angoscia: non manca niente. Da quando cent’anni fa l’archistar palermitano Ernesto Basile rifece l’emiciclo di Montecitorio, mai si era visto un ministro rimasto solo in aula a difendersi da una mozione di sfiducia, come è capitato ieri a Daniela Santanché.
Privata di qualunque sostegno dai Fratelli d’Italia, mentre veniva sbranata dalle opposizioni: che invocano dimissioni, rifiutate da lei con ostinazione. Contro il buon senso e contro i desiderata della premier.
Vero che ieri era lunedì, giorno in cui nelle massime istituzioni vige il «venga chi può»; vero che era solo l’apertura della discussione sulla mozione di sfiducia alla ministra. E non il voto finale, previsto forse per giovedì. Restano però i numeri. E gli atti. Del suo partito, FdI, presenti dodici deputati, spettatori silenti. Lega e Forza Italia, zero all’appello. Diciannove del Pd, in testa Elly Schlein, diciannove dei 5 stelle con il ciuffo di Giuseppe Conte bene in vista; due dei Verdi-Sinistra, due di Azione, zero di Italia Viva.
Lei, Danielona, come la chiamano, è entrata in aula con un minuto di ritardo, si è seduta accanto a Nello Musumeci, ministro per le Politiche del mare, uno dei due titolati insieme a Luca Ciriani, presente per dovere in quanto responsabile dei Rapporti col Parlamento.
A esser precisi, nel 2021 era capitata anche a Roberto Speranza la triste sorte di sedersi in mezzo a banchi del governo deserti quando andò in Senato, reo di aver salvato il Paese dal Covid con il lockdown e per questo sfiduciato - guarda un po’ - da FdI. Ma allora al ministro della Salute fu concessa la difesa d’ufficio, con svariati e sdegnati fervorini dei compagni di trincea: insomma gli fu risparmiato il silenzio tombale dai banchi della sua maggioranza.
Spettacolo inedito e abbastanza sconcertante nel complesso, dalla superbia della ministra allo schiaffo dei suoi, segno di fiducia negata, di enorme imbarazzo, di ostracismo verso chi da mesi è nei guai con la giustizia e non se ne fa cruccio alcuno.
Senza batter ciglio, per un’ora ha voluto incassare ogni genere d’invito («se ne vada!» il più morbido) e di recriminazione sulla sua condotta «priva di disciplina e onore come si conviene a un ministro» (copyright 5s). Ma se la capacità di incassare un’interminabile scarica di colpi non impedì a Muhammad Alì di battere al sesto round George Foreman nel “match dei match”, questo pestaggio parlamentare dovrebbe produrre qualche effetto anche su uno stomaco forte come quello della ministra. Pure se alla prova del voto la maggioranza la salverà, per ricompattarsi dopo mesi di tensioni, non certo per solidarietà verso i suoi comportamenti.
E se non su di lei, lo spettacolo di un membro del governo all’angolo forse avrà prodotto qualche sfarfallio sui nervi della premier: presa pure di mira dal pd Toni Ricciardi con la domanda «Santanché è in grado di muovere leve di ricatto che Sangiuliano non aveva?». E sfidata dunque a pretenderne le dimissioni.
In aula Giorgia Meloni non c’era, infrangendo di nuovo le regole del buon costume come nel caso Almasri, ma da fuori ha ordinato di fare silenzio. Il risultato però – oltre a rinverdire il detto di De Gaulle «silenzio splendore dei forti, rifugio dei deboli» - ha fatto tornare alla mente anche il più malizioso detto popolare «chi tace acconsente».
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