L’industria a un bivio cruciale

La domanda da porsi è quanto la crisi dell’industria manifatturiera sia di natura congiunturale, o sia invece il segnale di trasformazioni più profonde

Giancarlo CoròGiancarlo Corò

Gli ultimi mesi del 2024 sono stati segnati dall’intensificarsi di crisi nell’industria manifatturiera. I settori più colpiti: l’auto e il lusso. Ma l’impatto si è inevitabilmente distribuito anche in altri comparti, dalla siderurgia alla produzione di macchinari.

La domanda da porsi è quanto questa crisi sia di natura congiunturale, o sia invece il segnale di trasformazioni più profonde. La preoccupazione è più che giustificata, per almeno due ragioni. Innanzitutto perché la manifattura è ritenuta da sempre l’asse portante di un’economia moderna, dove si accumulano le conoscenze produttive e si impiegano le tecnologie più avanzate. Di conseguenza, dove meglio si sviluppa l’innovazione. Senza un’industria di qualità è difficile veder crescere servizi avanzati, siano essi a monte della filiera, come ricerca, progettazione, finanza, sia a valle, quali marketing, logistica, commercio.

La seconda ragione è politica: da almeno due secoli l’occupazione nell’industria è associata alla formazione della classe media, componente fondamentale delle democrazie occidentali. L’industria è stata in questo senso un potente fattore di stabilità democratica, fornendo un efficace sistema di distribuzione del reddito, mobilità sociale, identità collettiva.

Che non si tratti solo di una condizione congiunturale ce lo confermano i dati di lungo periodo: dal 1970 a oggi l’Italia ha perso circa 5 milioni di lavoratori nell’industria, passando dal 40% dell’occupazione all’attuale 18%. Situazione non solo italiana: nello stesso periodo la Germania è passata dal 50% al 19%, il Giappone dal 30% al 16%, gli Usa dal 25% all’8%. Attenzione, perché il processo di de-industrializzazione – per quanto questo concetto non sia privo di equivoci – ha coinvolto anche la Cina, che ha raggiunto il picco manifatturiero dieci anni fa, dopo di che anche nella fabbrica del mondo è iniziata la discesa, con una quota oggi pari a quella dell’Italia.

Le cause di questo declino sono diverse. Innanzitutto è cambiato il paniere di consumi, sempre più composto di servizi invece che di beni. Fondamentali sono stati i processi di automazione e delocalizzazione, che hanno spinto la produttività dell’industria più di ogni altro settore, aumentando l’intensità di capitale e comprimendo l’occupazione. Robotica avanzata e intelligenza artificiale stanno accelerando questo processo, sottraendo spazi soprattutto agli “operai qualificati”, che vedono dissolvere un’identità professionale che ha a lungo rappresentato un potente valore politico e sociale.

Il ritorno di interesse nei confronti dell’industria è oggi motivato da temi come sicurezza e autonomia strategica, che pandemia e guerre hanno rimesso al centro delle agende politiche. Tuttavia, l’efficacia delle politiche industriali resta dubbia, almeno se l’obiettivo è il ritorno dell’occupazione. Negli ultimi 4 anni l’amministrazione Biden ha riversato in questo obiettivo quasi due trilioni di dollari (l’equivalente del Pil dell’Italia), ma la quota di occupazione manifatturiera si è ancora ridotta, anche in ragione dei cambiamenti tecnologici dell’industria, che richiedono figure qualificate, difficili da formare nel breve periodo.

Il governo italiano ha di recente proposto un “Libro verde sulla Politica industriale” nel quale si avanzano alcune idee condivisibili. Tuttavia, il ritorno agli splendori del Made in Italy rischia di essere una pericolosa illusione. Indicazioni più realistiche sono state indicate nel Rapporto Draghi: maggiore integrazione nelle filiere avanzate dell’industria europea e risorse più consistenti in capitale umano e nell’attrazione di talenti. Il 2025 sarà in ogni caso un anno cruciale per il futuro della nostra industria. —

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