Il macigno delle liste d’attesa

Scontro frontale tra governo e Regioni sul tema, ma per il ministro è «confronto istituzionale». Pesano le vergognose diversità tra territori, che non rispondono allo stereotipo della differenza tra Nord e Sud, ma sono trasversali al Paese

Francesco JoriFrancesco Jori
Il ministro della Salute, Orazio Schillaci
Il ministro della Salute, Orazio Schillaci

Era follia sperar. I versi manzoniani del 5 maggio come epigrafe per l’atavico problema delle liste d’attesa in sanità, nel frattempo divenuto autentico scandalo; e attorno al quale si accende ora uno scontro frontale tra governo e Regioni, anche se il ministro Orazio Schillaci lo derubrica a «confronto istituzionale»: sì, ma con le baionette innestate.

Con il rischio che la speranza di una soluzione vera si tramuti in disperazione; come sta già accadendo per i quattro italiani su dieci che, per evitare i tempi lunghi di una visita o un esame, ricorrono al privato, come spiega una ricerca del Censis.

La questione c’è, ed è un autentico macigno, nel quale sono scolpiti dati inequivocabili. La Corte dei Conti ha segnalato che un quarto dei due miliardi stanziati per il periodo 2022-2024 per ridurre le liste d’attesa non è stato utilizzato.

Un’indagine dei carabinieri del Nas ha accertato la presenza in un’azienda sanitaria su quattro di irregolarità gravi nella gestione delle pratiche.

Un rapporto Censis-Federazione degli Ordini dei Medici ha documentato che in un caso su due per fissare una visita o un esame non vengono rispettati i tempi massimi indicati dalle norme in materia.

Un’inchiesta di Altroconsumo ha rilevato che per sottoporsi a interventi chirurgici non urgenti bisogna attendere da sei mesi a oltre un anno.

Ad appesantire ancor più una cartella clinica già da codice rosso, concorrono vergognose diversità tra territori; che non rispondono allo stereotipo della differenza tra Nord e Sud, ma sono trasversali al Paese. Per dire: ci vogliono 351 giorni di attesa per una visita neurologica a Napoli, e 400 per una vascolare a Bolzano; 612 per una visita endocrinologica a Messina, e 735 per un ecodoppler cardiaco a Magenta, città metropolitana di Milano.

Soltanto sei Regioni su 20 forniscono informazioni complete e accessibili sui tempi di attesa tramite portale web; tra queste c’è la Puglia, ma non la Lombardia. Ci sono Regioni in fallo e altre (abbastanza) virtuose.

Veneto e Friuli Venezia Giulia figurano tra queste ultime; e c’è da capire i rispettivi governatori Zaia e Fedriga (quest’ultimo anche nella veste di presidente della Conferenza delle Regioni) quando contestano con toni forti il governo e il suo ministro.

Non è giusto stabilire regole uguali per tutte, con parametri stabiliti per decreto dall’alto, se c’è chi funziona e chi no. E non a caso su questo c’è l’accordo di tutte le Regioni, di destra o di sinistra che siano.

Anche perché è lo Stato per primo a creare le sue liste di attesa nel rendere operativi i provvedimenti adottati: il piano nazionale in materia è stato varato quasi un anno fa, ma rimane ancora per buona parte al palo per la mancata emanazione di metà dei suoi decreti attuativi (3 su 6).

Il risultato è uno scontro tra istituzioni, che passa sulla testa dei cittadini: tra centro e periferia siamo già arrivati a un botta e risposta con cinque lettere ufficiali, più una raffica di esternazioni e smentite.

Rischiando di dar ragione a Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe (organizzazione indipendente che si occupa della salute): «Più che un confronto costruttivo, quello in corso appare un tentativo reciproco di nascondere un fallimento annunciato: l’incapacità di governo e Regioni di affrontare con serietà e responsabilità una delle più gravi emergenze del Servizio sanitario nazionale».

A causa della quale qualche milione di italiani rimangono desolatamente in fila. Scoprendo, a proprie spese, che “paziente” non è solo un sostantivo: per loro, è diventato pure aggettivo.

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