Meloni cerca una via d’uscita
Di fronte a una recessione economica imprevista la premier potrebbe essere tentata dal voto anticipato

Gli animi maligni che affollano i corridoi del Parlamento scommettono che Giorgia Meloni non si farà sfuggire l’occasione di far eleggere nel 2029, quando lei avrà 50 anni, il prossimo capo dello Stato da una solida maggioranza di destra-centro. E cosa c’entra questa illazione con il gravoso problema dei dazi? Vediamo.
Non è un caso che l’unica borsa in salute venerdì fosse quella di Mosca, quasi a simboleggiare che l’unico a cui Trump potrebbe aver fatto un piacere è Vladimir Putin. Di sicuro, un’amica come Meloni, la sola leader europea a presenziare al suo insediamento, non ha apprezzato affatto il regalo sui dazi. Specie dopo che Leonardo, UniCredit, Intesa ed Eni (i quattro cilindri che fanno marciare il motore della nostra economia) hanno subìto uno dei peggiori crolli della storia in borsa. E dopo che centinaia di piccole e micro imprese che si reggono sull’export, hanno aperto gli ombrelli come fosse tornato il covid. Quello che nei candidi sogni di Salvini e Meloni doveva essere l’alleato americano sul ring europeo si è trasformato in insidioso nemico.
Come la storia recente insegna, in un paese ad altissimo debito, il precipitare verso una recessione imprevista, con i mercati scatenati contro, può far cadere un governo. Del resto, due fattori come aumento di inflazione (prevista dalla Fed statunitense) e diminuzione della crescita economica (prevista da Bankitalia) possono causare una tempesta perfetta e mettere nei guai l’esecutivo, malgrado la professione di serenità fatta da Meloni. Uscita lungi dal corrispondere al profilo di buon sovranista: vocato a fare il bene della sua nazione, che mai coincide col negare la realtà anche quando si sta perdendo la guerra.
E non è che le opposizioni pensino al bene del paese quando si augurano la tempesta perfetta. Per evitarla, Elly Schlein chiede alla premier di accodarsi all’Europa per dare agli Usa una risposta unitaria sui dazi, ben sapendo che la linea del governo è un’altra. Ma se tutto precipitasse, uno choc sull’economia, unito all’assenza di una maggioranza alternativa in Parlamento per formare un altro governo, potrebbero indurre la premier a coltivare la tentazione di andare alle urne anticipate. Per capitalizzare finché può un consenso che ancora ha; e per poter rivincere le elezioni in tempo per condurre la madre di tutte le partite politiche nel 2029. Questi scenari di fantapolitica vanno registrati per dire del clima di questi giorni. Dove è stato accantonato solo momentaneamente l’altro fantasma che turba i sonni di Giorgia: i miliardi di euro per gli armamenti richiesti dallo stesso Trump ai paesi Nato, da reperire contro i desiderata degli elettori.
La realtà è che Giorgia si barcamena, non aveva messo in conto una simile mazzata e stenta a vidimare la controffensiva di Bruxelles per paura di finire nel libro nero del presidente Usa. Mentre il suo omologo in Spagna, Pedro Sanchez ha già varato un decreto per disporre 14 miliardi di euro di sostegni alle imprese. Il mondo crolla, la premier spera di vedere Trump prima che l’Europa decida una rappresaglia sui dazi, magari per dirgli a voce che lei non è d’accordo. Come non è d’accordo Salvini, che punta su un confronto a due Italia-Usa e si spinge a diffidare l’Europa dal prendere misure che danneggino le imprese italiane, quasi che l’aggressore fosse Bruxelles. Una posizione che sfiora il paradosso, tanto che il leader di FI Tajani, gli ricorda che «la trattativa sui dazi la fa la Commissione Ue, queste sono le regole e quando si parla bisogna conoscerle». Un dualismo che indebolisce il governo.
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