Una regina con la sindrome dell’assedio
Giorgia Meloni è la dominatrice, praticamente senza competitor, della politica nazionale. Anche in virtù delle sue capacità comunicative, con cui riesce a coprire gli errori tattici e sostanziali compiuti dal suo governo
Quasi tre ore di risposte a 40 domande rivolte dai rappresentanti dei media. Il ritorno alla conferenza stampa di fine anno, convertita in quella d’inizio 2025, costituisce l’ennesima prova di forza oratoria di Giorgia Meloni, di cui già aveva dato testimonianza in varie occasioni.
Oggi la presidente del Consiglio italiana rappresenta, senza ombra di dubbio, una protagonista di rilievo della politica internazionale, e la dominatrice – praticamente senza competitor – di quella nazionale. Anche, giustappunto, in virtù delle sue capacità comunicative, con le quali riesce a coprire gli errori tattici e quelli sostanziali compiuti dal suo governo.
Meloni è riuscita a diventare il pivot autentico della fase politica, ed è vittoriosa su ogni tavolo o questione, da ultimo, il ritorno di Cecilia Sala. E, dunque, ancor più adesso che risulta saldamente al comando, colpisce il fatto che la premier riproponga ancora una volta, come è accaduto a più riprese nel corso delle risposte alla stampa, il solito schema misto di difesa preventiva e attacco ad alzo zero. O, per meglio dire, lo si capisce proprio (ed esclusivamente) nell’ottica della politique politicienne.
Si tratta di una postura più propagandistica che istituzionale, cominciata all’insegna di questo incipit meloniano: «Non ritengo di dovermi difendere dalla previsione di rappresentare un limite o un problema per la libertà di stampa o per la democrazia». E, visto che il «buongiorno si vede dal mattino», stoccate, stilettate o attacchi mascherati da autodifesa hanno costellato il colloquio coi giornalisti.
Gli esempi si sprecano: l’assoluzione di Elon Musk da ogni addebito (e la negazione dell’esistenza di un contratto con SpaceX), mentre le ingerenze e i condizionamenti sarebbero quelli provenienti da George Soros. La reazione stizzita rispetto alle critiche che vengono mosse alla sorella Arianna, e il rigetto (apparso retorico) dell’ipotesi di un «complotto» nei suoi confronti, mentre andrebbe stabilito se si tratti di mere falsità oppure di una vera e propria «strategia» per danneggiarla.
I “sassolini nella scarpa” a proposito della «turbolenza politica» che stanno attraversando Francia e Germania – a cui si contrappone un editoriale quasi “in presa diretta” (verrebbe da dire) del Financial Times, che mette in discussione l’idea di una neoacquisita leadership meloniana nell’Ue. Le frecciate indirizzate al dimissionario Ernesto Maria Ruffini e a Matteo Renzi, nei cui riguardi ha voluto ribadire la condivisione della norma sostanzialmente ad personam.
L’impugnazione della legge regionale campana sul terzo mandato, che corrisponde pure a un missile contro Luca Zaia. Puro stile meloniano, che non cambia nel dna a dispetto del passaggio dai banchi dell’opposizione a palazzo Chigi: la sindrome dell’accerchiamento e lo storytelling dell’underdog anche nel momento dei massimi trionfi.
D’altronde, la sua narrazione continua a essere quella del «rifare l’Italia» e, se i risultati promessi non arrivano, bisogna allora sfornare nemici “soverchianti” a getto continuo. Tu chiamalo, se vuoi, populismo.
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