L’immigrazione ostaggio dell’ideologia
La questione migranti e confini infiamma il dibattito politico, ma la portata del fenomeno sfugge a soluzioni semplici, di impronta ideologica

Ormai alla vigilia di elezioni cruciali per il futuro dell’Europa, le tensioni globali sembrano essersi concentrate, negli ultimi giorni, sulla Germania. Più precisamente, su Monaco, sede della Conferenza sulla sicurezza con al centro il destino dell’Ucraina. E poche ore prima oggetto di un attacco che – se mai ce ne fosse stato bisogno – ha riportato l’attenzione su un’altra questione “di confini”. I confini tra culture e religioni, i confini attraversati dai flussi migratori.
Sebbene non sia la prima emergenza per le persone/elettori, l’immigrazione è senza dubbio tra i propulsori del consenso ai partiti di destra. È stato così in Italia, per la coalizione che attualmente governa il Paese. Dinamiche analoghe sono riscontrabili in tutte le democrazie avanzate.
Il pugno duro sui migranti infiamma il discorso di Donald Trump, che ora spinge l’ascesa di formazioni xenofobe nel Vecchio continente. In Germania, le previsioni proiettano la destra di Alternative für Deutschland (AfD) oltre il 20 per cento. Ma espressioni di rigetto si ritrovano anche all’estrema sinistra: la formazione Alleanza Sahra Wagenknecht nel voto di domenica prossima si gioca con la Linke, dalla quale è nata, il superamento della soglia del 5 per cento.
Il messaggio di questi attori politici è saturo di contenuti emozionali, affermazioni perentorie, soluzioni “definitive”. Fa leva sulle paure dei cittadini. La competizione sul lavoro, nell’accesso ai servizi. La minaccia ai valori tradizionali. I rischi per la sicurezza, si tratti della criminalità comune oppure del fondamentalismo religioso. Come nel caso dell’atto terroristico nella città bavarese: solo l’ultimo di una lunga serie in terra tedesca. Analoga (pare) la matrice di un altro tragico attacco, con coltello, avvenuto sabato in Carinzia, Austria.
La promessa di protezione dei “nativi” si è a lungo affidata all’idea di imporre uno stop alla (presunta) invasione, attraverso muri e porti chiusi. Più di recente, ha guadagnato spazio la politica della ri-migrazione, mediante espulsioni e rimpatri. Dalla fase della propaganda a quella del governo, però, queste soluzioni si rivelano solo parzialmente attuabili. Non che non producano conseguenze, talora drammatiche. Ma non raggiungono i risultati che vengono invece sbandierati. Perché la portata del fenomeno sfugge a soluzioni semplici, di impronta ideologica. Perché la “realtà” spesso impone interventi di segno opposto: si pensi alla domanda di lavoro in specifici settori. O perché emergono vincoli di natura giuridica, come nella controversa vicenda italiana dei centri in Albania.
Va tuttavia sottolineato come un certo scollegamento con la realtà sembri caratterizzare, non di rado, anche il campo di chi combatte tale impostazione. La cui legittima propensione all’apertura, la condivisibile sensibilità agli aspetti umanitari, la rivendicazione del valore dell’accoglienza tradiscono una sottovalutazione della necessità regolare i flussi. La negazione delle tensioni che da essi derivano. Ricondotte a percezioni distorte – che esistono. A orientamenti razzisti, che pure esistono. A una cattiva comunicazione o a una propaganda interessata. Anch’esse esistono, ma i “buoni sentimenti”, da soli, rischiano di contribuire all’impossibilità di governare il fenomeno. Alimentando reazioni opposte a quelle auspicate. —
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