Musk e Ramaswamy e il primo duello che divide i trumpisti

La linea di divisione interna al trumpismo segnala una delle prime contraddizioni della nuova amministrazione: come può la nazione più potente del mondo permettersi di rinchiudersi nei propri confini, badando soltanto al proprio particolare? 

David Allegranti
Elon Musk e Vivek Ramaswamy
Elon Musk e Vivek Ramaswamy

L’industria tecnologica e informatica ama la globalizzazione e la libera circolazione non solo di merci ma anche di persone.

Per questo Elon Musk e Vivek Ramaswamy, “tech bros” come vengono sprezzantemente definiti dagli attivisti del movimento Maga (Make America great again), dicono di essere a favore dell’allargamento dei visti per l’immigrazione negli Stati Uniti, con l’obiettivo di attirare esperti e tecnici (ingegneri e non solo) da Cina e India.

D’altronde, Musk è americano ma nato in Sudafrica e Ramaswamy è nato negli Stati Uniti ma figlio di due indiani.

Le loro storie imprenditoriali di successo sono un grande spot per le migrazioni, in linea peraltro con la tradizione americana.

Ma i sovranisti del Maga, capeggiati dal principe delle tenebre Steve Bannon, non vogliono saperne nulla. Sognano una rinnovata “America first” e dicono che non c’è per forza bisogno di diventare una terra eletta per ingegneri e informatici.

Per questo hanno contestato la nomina di Sriram Krishnan, ingegnere e venture capitalist, a consigliere politico di Donald Trump per l’intelligenza artificiale.

Musk e Ramaswamy, chiamati a collaborare con la nuova amministrazione, ribattono però che se gli Stati Uniti vogliono competere con la Cina - vecchio e storico avversario globale - devono attirare risorse umane da tutto il mondo.

È la prima grande linea di frattura che emerge in vista della cerimonia di insediamento del 20, quando Trump sarà ufficialmente presidente.

Per ora la linea prevalente è quella dei “tech bros”, visto che Trump ha dato loro ragione.

Resta da capire però quanto tempo personalità ingombranti come Trump, Musk, Ramaswamy e il bar di Guerre Stellari che compone l’antropologia trumpiana potranno convivere.

È significativo che nel suo podcast, “War Room”, Bannon - come un vecchio grillino verrebbe da dire, per banalizzare - abbia dichiarato guerra ai «tecnocrati» e al loro «odio per gli Stati Uniti».

Come Peter Thiel, statunitense nato a Francoforte, co-fondatore di PayPal, venture capitalist e mentore di J.D. Vance, vicepresidente eletto degli Stati Uniti.

Non è chiaro perché, per dirla con un gioco di parole, i tecnocrati dovrebbero odiare il Paese che ha permesso loro di diventare ciò che sono, ma tant’è.

Il duello interno al trumpismo segnala una delle prime contraddizioni della nuova amministrazione: come può la nazione più potente del mondo permettersi di rinchiudersi nei propri confini, badando soltanto al proprio particulare? E come si fa a essere i capi del mondo libero senza accettare la contaminazione con le risorse umane più competitive?

Davvero gli oltre 300 milioni di statunitensi possono bastare sul mercato globale? Era soltanto questione di tempo prima che il fronte populista - variegato com’è - si spaccasse e lasciasse emergere due visioni del mondo in aperto contrasto.

Da una parte il libertarismo tecnologico che odia le limitazioni burocratiche e geografiche, dall’altra i sostenitori dell’isolazionismo più retrivo.

Trump nel suo secondo mandato dovrà tenere tutto insieme e per un presidente che polarizza la pubblica opinione come pochissimi altri potrebbe rivelarsi un interessante contrappasso.

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