Nè condannare, nè assolvere: la questione dell’esodo istriano e dalmata va capita

Solo così si potrà collocare nelle giuste coordinate la questione dell’esodo, ma anche altre drammatiche vicende che riguardano gli stessi anni. 

Franco Belci
Nella foto una testimonianza dell’esodo istriano
Nella foto una testimonianza dell’esodo istriano

Sono i primi di ottobre del 1946. Un ragazzo non ancora ventenne, arrivato avventurosamente a Roma, cerca di prendere appuntamento con Luigi Sturzo presso il convento dov’è ospitato dopo l’esilio negli Stati Uniti. Vuole chiedergli di contattare “gli americani” per convincerli a lasciare Pola all’Italia.

Sturzo lo riceve e tarpa le ali a qualsiasi speranza. Quel ragazzo, tornato a Pola deluso, era mio padre.

La stessa sorte era toccata qualche mese prima a una delegata della locale Democrazia Cristiana che aveva avvicinato De Gasperi a una riunione romana. l presidente le confidò: «Ah, Pola! Se riusciremo a salvare Trieste sarà un miracolo».

Di fronte a quegli insuccessi, restava la carta della disperazione: fu un esponente liberale a proporre l’assegnazione al nascente TLT di Gorizia e Monfalcone a condizione che la Jugoslavia facesse altrettanto con l’Istria.

Mio padre si lasciò sedurre dall’ipotesi, che si rivelò impraticabile: fu respinta sia nell’Isontino che a Trieste.

Restò a Pola fino all’ultimo, con una pistola (che non sapeva usare) sotto il cuscino, fino a quando gli inglesi non gli intimarono di andarsene. Insomma, la situazione era intricata, e divideva anche gli italiani: proprio per questo andrebbe analizzata con la serenità di giudizio che il tempo può oggi consentire.

Non si tratta di condannare o assolvere, ma di cercare di capire. Solo così si potrà collocare nelle giuste coordinate la questione dell’esodo, ma anche altre drammatiche vicende che riguardano gli stessi anni.

Non so se si possa interpretare in questo senso l’iniziativa assunta qualche tempo fa da FdI a Trieste per ricordare “i patrioti” che tennero testa, il 30 aprile 1945, “ai tedeschi”.

Per farlo, occorrerebbe superare un’ambiguità: quegli uomini erano anche antifascisti che combattevano per cacciare gli occupatori. Se lo si riconoscesse, uno spiffero di borino potrebbe aprire una piccola finestra portando aria fresca in una discussone altrimenti stantia.

Finora, la logica di contrapposizione ha finito per trasformare il “giorno del ricordo” in quello del rancore.

Non si tratta di uniformare memorie che restano diverse, ma di rafforzare la consapevolezza del passato come elemento condiviso della democrazia e della cittadinanza.

Certo, non si può ignorare il legame che, oggettivamente, esiste tra foibe ed esodo: la recente storiografia ha messo in luce come alle uccisioni di molti italiani, non tanto nelle foibe, quanto tra le maglie del sistema di repressione comunista, concorsero varie cause: il generale imbarbarimento dovuto alle violenze della guerra, il rancore dei contadini sloveni e croati nei confronti dei proprietari italiani e delle istituzioni che li perseguitarono, le uccisioni e le distruzioni dell’esercito italiano nella “provincia di Lubiana”.

Ma certamente ebbe un grande peso il disegno, dapprima abbozzato, poi perseguito, di sostituzione del potere nazista e fascista con i contropoteri del comunismo jugoslavo, attraverso la sbrigativa eliminazione non solo dei vertici delle istituzioni nominati dal regime, ma anche della potenziale nuova classe dirigente italiana, antifascisti compresi, e degli sloveni e dei croati anticomunisti.

Infine, va chiarito un altro punto: l’accostamento tra foibe e Shoah non regge alle misure della Storia ed è utile solo a riattizzare la spirale di vecchi rancori.

Lo sterminio degli ebrei (ma non solo) rappresentò l’esito di un’ideologia di sopraffazione praticata attraverso una capillare organizzazione industriale, nell’ambito della teoria della superiorità della razza.

Per capire le ragioni delle foibe occorre invece fare riferimento a un sommarsi di eventi, messi in luce anche dalla commissione bilaterale italo slovena istituita dai rispettivi governi nel 1993.

Naturalmente non si tratta di giustificare quelle con precedenti violenze, ma di accompagnarne il ricordo con la capacità di distinguere e la volontà di capire.

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