La politica industriale è in ritardo: all’Italia serve un balzo nel digitale
Nella competizione globale grazia e bellezza dei nostri prodotti ormai non bastano più. Il recente Libro verde governativo può portare alla svolta strategica necessaria e condivisa
Giancarlo Corò si è chiesto su queste colonne (Industria a un bivio cruciale, 30 dicembre 2024) se l’intensificarsi delle crisi industriali manifatturiere, che si registrano in Italia da 22 mesi, abbia carattere congiunturale o strutturale. La risposta non può che essere articolata.
Ogni crisi settoriale (dell’automotive, della siderurgia, del lusso, delle macchine utensili) ha la sua storia e la sua spiegazione. Così come si condizionano a vicenda le prospettive di breve periodo (congiunturali) con quelle di medio-lungo periodo (strutturali). Ma casi settoriali e profili temporali non possono essere valutati compiutamente se non si tiene conto del “megatrend” entro il quale ci si sta muovendo: del fatto che la nave della manifattura italiana naviga da almeno cinquant’anni in acque agitate.
Acque che ha saputo finora dominare brillantemente, difendendo lo spazio di offerta stretto tra la concorrenza dei Paesi avanzati, per le produzioni innovative, e quella dei Paesi emergenti, per le produzioni mature, in un mare-mercato globale che, anche se allargatosi geograficamente, continua a contrarsi per il modificarsi della struttura dei consumi: da quelli di beni a quelli di beni pieni di servizi a quelli di solo servizi.
Non stiamo ballando su Titanic, dunque, ma navighiamo in un mare sempre più frequentato da nuove navi manifatturiere e, soprattutto, da nuove navi cariche di prodotti ad alta intensità di conoscenza che i mercati mondiali mostrano di apprezzare sempre più. Ma, questo è un contesto attivo fin dal 1970, dalla data a partire dalla quale le tecnologie digitali hanno cominciato a ibridare e/o sostituire quelle meccaniche nella produzione di beni, sempre più affiancati da nuovi servizi e produzioni immateriali, spesso fornite digitalmente. Una innovazione radicale alla quale il nostro Paese ha risposto in un modo originale, diverso da quello di molta parte del resto del mondo occidentale a cominciare dagli Stati Uniti, che hanno guidato e questa transizione.
Nel 1970 Italia (28%) e Stati Uniti (26%) impegnavano nella manifattura più o meno la stessa quota di occupati. Da quella data si avvia la “deindustrializzazione/servitizzazione” delle economie sviluppate con la contrazione di queste quote che negli Usa scende dal 26% del 1970 fino all’8% attuale, mentre nello stesso arco di tempo in Italia si ferma al 16% corrente.
Percorsi paralleli, perché ineluttabilmente dettati dallo stesso progresso tecnologico, dalla stessa modifica degli stili di vita e dei consumi corrispondenti e dal comune confronto con l’apertura dei mercati globali conseguenti alla “riforma economica” cinese del 1978, alla caduta del muro di Berlino del 1989 e alla stagione del multilateralismo prevalso dopo l’ammissione della Cina al Wto nel 2003.
Percorsi paralleli, ma risultanti da strategie di sviluppo molto diverse che oggi presentano il conto. Gli Usa hanno puntato decisamente sulla transizione digitale e sui mercati mondiali dei corrispondenti servizi che oggi vedono molti dei suoi occupati impiegati in attività ad alta intensità di conoscenza in un’economia di servizi che è arrivata a contare per l’84% dell’occupazione totale.
Stati Uniti che nel contempo accettano, e convincono il resto del mondo ad accettare, che la manifattura si sposti in Cina e in altre economie emergenti; atteggiamento invertito solo di recente per ragioni che sono più geostrategiche – la competizione globale con la Cina – che economiche.
L’Italia invece difende la sua specializzazione manifatturiera, anche sfruttando la protezione del mercato unico europeo, si inserisce in nicchie globali dove valorizza le nuove tecnologie digitali, e impreziosisce con la «grazia e la bellezza» vetruviana del Made in Italy produzioni tecnologicamente mature; caratterizza poi la sua economia di servizi sfruttando la rendita turistica, culturale e ambientale, con crescita dell’occupazione nel settore che è arrivata a valere 13% del totale nazionale.
L’Italia rimane però sostanzialmente tagliata fuori non solo dall’economia delle piattaforme, ma anche da molto altri mercati globali dei servizi prodotti e distribuiti digitalmente. È avendo presente tutto questo che, per rispondere alla domanda iniziale, ci si deve porre più di un quesito. Fino a quando «grazia e bellezza» del Made in Italy difenderanno le nostre produzioni di beni tecnologicamente maturi? Riuscirà l’ibridazione digitale dei processi di produzione a farci espandere le nicchie di tecnologia avanzata già occupate?
Si creeranno le condizioni private e pubbliche per risalire lo spettro dell’innovazione tecnologica e diventare protagonisti nei settori chiave dell’intelligenza artificiale, del calcolo quantistico, delle tecnologie spaziali, dell’energia sostenibile, e così via? Riusciremo ad attrezzarci per riprenderci le quote di valore aggiunto che l’economia della piattaforma ci ha sottratto anche nella erogazione a distanza di servizi tradizionali (e-commerce, e-tourism)? Non dimenticando di chiederci quanto possano continuare a contribuire al benessere futuro del nostro Paese le altre produzioni non manifatturiere (o non agro-manifatturiere), a partire dai servizi venduti all’incoming turistico internazionale.
Tutte domande che richiedono risposte coerenti, strategiche, e stabili nel medio-lungo periodo che solo l’Unione europea e lo Stato possono dare per costruire il quadro di certezze necessarie alle imprese e agli altri attori sociali e istituzionali per rendere sinergiche le loro decisioni. Forse, dopo tanto tempo, si sta creando il luogo nel quale trovare le risposte sistemiche cercate: il processo di definizione di una politica industriale per il nostro Paese che, avviata con la pubblicazione del libro verde Made in Italy 2030.
Libro verde sulla politica industriale da parte del ministero delle Imprese e del Made in Italy lo scorso dicembre, dovrebbe portare entro la fine del 2025 alla definizione di una strategia industriale, sistemica e di lungo periodo (2050) per l’Italia fondata su «... un consenso condiviso... », perché non possiamo fare l’errore di costruire strategie da «modificare a ogni legislatura».
Non siamo ancora di fronte al luogo bipartisan di ripensamento strategico sul futuro dell’Italia del quale avremmo un tremendo bisogno, ma è comunque una occasione da non perdere.
Riproduzione riservata © il Nord Est