Poveri italiani: ecco i numeri del tracollo sociale
Mezzo milione di famiglie in povertà assoluta a Nord Est secondo l’Istat. Per un italiano su quattro, fare fronte alla quotidianità è una guerra: troppo spesso in perdita

I conti non tornano. “Abbiamo abolito la povertà”, proclamava dal canonico balcone Luigi Di Maio venerdì 28 settembre 2018: magari si riferiva alla sua, non certo a quella degli italiani. Che continuano a rimanerci da anni: 6 milioni di persone versano in povertà assoluta, segnala l’Istat nel suo ultimo rapporto sulle condizioni di vita e reddito delle famiglie (mezzo milione di famiglie a Nord Est); quindici anni fa, alla vigilia del 2008, prima della grande crisi finanziaria, erano la metà, 3 milioni. Vuol dire, in concreto, che si trovano in difficoltà tali da non potersi curare regolarmente, pagare le bollette, mangiare due volte al giorno. Altri 8 milioni arrivano a mala pena a disporre del reddito necessario per vivere.
Dunque, per un italiano su quattro far fronte alla quotidianità è una guerra: troppo spesso in perdita. Ad aggravare la diagnosi, sempre da dati Istat, è l’aumento delle diseguaglianze: l’ammontare del reddito del 20 per cento delle famiglie che stanno meglio è oltre cinque volte superiore alle entrate del 20 per cento di quelle che stanno peggio; un dislivello tra i più alti in Europa.
A fronte di questa a disfatta sociale, il governo ha ridotto di 300 milioni il fondo di finanziamento dell’assegno di inclusione, come ha denunciato l’Alleanza contro la povertà in un’audizione in Parlamento, segnalando che i beneficiari della misura risultano dimezzati; e che nel 2024, nella lotta alla povertà, la legge di bilancio ha disposto un minore investimento di 1,7 miliardi. Non è questione solo dell’attuale esecutivo.
Dal 2008, inizio della crisi, prima di esso se ne sono alternati otto di ogni impronta, tecnici compresi; ma la situazione non è cambiata, semmai si è aggravata: oltretutto in un contesto generale di debito pubblico che ha raggiunto i 3 mila miliardi, con un onere di 90 miliardi l’anno di soli interessi. Il tutto con un Pil inchiodato a un magro più 0,7 per cento; e con 24 milioni di persone che hanno un lavoro, sui 38 che avrebbero l’età per farlo.
La crescente povertà degli italiani è alimentata da un altro dato, appena proposto dall’Organizzazione internazionale del Lavoro: i nostri salari ci collocano all’ultimo posto tra i Paesi del G20. Se nel 2024 sono cresciuti di 2,3 punti percentuali, le retribuzioni reali causa l’inflazione risultano di 8,7 punti inferiori a quelle pre-crisi del 2008; da allora, il potere d’acquisto dei nostri salari ha subito le perdite maggiori in termini assoluti dei Paesi avanzati, mentre la Germania ha conosciuto un più 15.
Non c’è bisogno comunque di statistiche: bastano e avanzano le cronache quotidiane per registrare come e quanto siano penalizzate in particolare le famiglie con i redditi più bassi (senza bisogno di sprofondare sotto la soglia di povertà) dall’oggettivo aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, superiore a quello delle entrate; anche per effetto di scandalose speculazioni, a partire dagli alimentari e dall’energia.
A fronte di questo bollettino a rischio Caporetto, assicurare una risposta che non si riduca a semplici quanto velleitari tamponi è una soluzione non limitata a ridurre il disagio, ma rivolta all’interesse collettivo: le diseguaglianze degradano facilmente in fratture sociali deleterie, tali da alimentare conflitti distruttivi. E non è chiaramente questione solo italiana: l’Agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile indica l’obiettivo di eliminare completamente entro quell’anno la povertà estrema. Nei fatti, non alla Di Maio.
Riproduzione riservata © il Nord Est